"È altamente plausibile che, rimanendo al di fuori dell’area monetaria europea, il deterioramento sociale sarebbe stato ancora più rapido e incontrollato per il realizzarsi di uno scenario di inflazione-svalutazione esacerbata dalla pressione finanziaria internazionale"
“… il carattere mondiale dell’attuale rivoluzione liberale (…) costituisce infatti un’ulteriore prova che è in atto un processo fondamentale che detta un comune modello evolutivo per tutte le società umane, qualcosa come una storia universale che si muove in direzione della democrazia liberale (corsivo mio)”, così Fukuyama, plaudendo ai risultati sociali e politici del friedmanismo aggressivo, prospettava la fine della storia e le magnifiche condizioni dell’“ultimo uomo”.
Non sembri troppo avventata questa citazione per un tentativo di riflessione sulla domanda cruciale posta da Rossana Rossanda se “non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?” che ha dato l’avvio a questa discussione su Sbilanciamoci.info. L’esigenza di avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa si combina nelle sue parole con il sospetto che le tensioni che oggi interessano l’area sono il frutto di una “filosofia uguale per tutti”. E proprio perché condivido questo sospetto che mi sembra una necessità ineludibile – in un momento in cui di tutto si parla tranne che delle condizioni “oggettive” che preparano il nostro futuro – guardare un po’ oltre il 2013 per capire dove va l’Europa (e l’Italia con lei). Anche se prima è, forse, opportuno chiederci dove “sta” oggi l’Europa (e ovviamente l’Italia al suo interno).
Fa bene Mario Pianta nel suo intervento ad affrontare la discussione con uno sguardo lungo ricercando le radici dell’oggi in quanto è successo un ventennio fa (1992). Condivido l’opportunità di riandare al nostro passato per ricordare i vincoli, interni ed esterni, di cui ci viene fatto ancora carico allo scopo di verificare i condizionamenti attuali “oggettivi” prima di individuare le prospettive possibili e quelle auspicabili.
È scontato ricordare che l’ultimo trentennio ha visto il sorgere, diffondersi e affermarsi di una gestione neo-conservatrice (neo-liberista) della politica che ha soppiantato, nel mondo anglosassone e quindi nel centro della politica mondiale, il precedente indirizzo keynesiano e con esso definitivamente quell’età dell’oro che era durata poco più di vent’anni. Troppo noto è l’orientamento (il Washington consensus) che ha mirato a trasformare – anche con la democrazia (liberale) gestita da militari e dittatori – le economie del Sudamerica e del Sud-est asiatico in società di mercato. Pressione culturale che ha più che lambito l’Europa occidentale e che ha messo in discussione quell’impalcatura istituzionale dei primi decenni del dopoguerra – basata sul rapporto tra big business, big labour, big state e big bank (nazionali) – giudicata del tutto obsoleta nel fornire sicurezza ad ampi strati della popolazione nei confronti del futuro. Il prodotto sociale che, nel primo dopoguerra, defluiva dalle imprese produttrici alla società tramite lo stato e il sindacato, risulta rovesciato nella realtà ora affermatasi poiché sono le imprese a richiedere alla società di essere garantite dall’incertezza nei confronti del futuro con il trasferimento del relativo rischio al proprio esterno (contratti di lavoro individuali, regole pubbliche di sostegno all’intrapresa privata, privatizzazione della assicurazioni sociali ecc.) per porlo a carico dei singoli, naturalmente in maniera più gravosa per i settori, ceti, individui più deboli. Non a caso ne risulta allentato il parallelismo tra crescita economica e sviluppo sociale, che era stato garanzia di estensione delle libertà e della democrazia. Per quanto non faccia più capolino nelle dichiarazioni ufficiali dopo l’ultima crisi, il Washington consensus è ancora parte costitutiva della visione della classe dirigente “globale”.
Ho detto che il neo-liberismo ha più che lambito un’Europa che negli anni ’80 si è trovata stretta tra l’aggressività industriale giapponese e quella finanziaria statunitense. L’accettazione di una prospettiva di liberalizzazione “globale” degli scambi ha richiesto, per competere internazionalmente, di rafforzare le istituzioni economiche europee accelerando la costruzione del mercato interno per una più accentuata integrazione economica (la società e la politica risultando non prioritarie nella cultura politica del periodo). Per quanto riguarda i rapporti all’interno dell’Europa, la costruzione di un’area di libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali si fondava sulla fiducia che la maggiore concorrenza fra i vari sistemi nazionali su un mercato europeo meno frammentato sarebbe stato il fattore preminente di un rilancio produttivo e, in seguito, di un rinnovato benessere per l’intera società europea. Naturalmente, la ristrutturazione del mercato europeo richiedeva la ristrutturazione degli organi della politica economica, questione che si è espressa nel passaggio della politica monetaria nelle mani di un’Autorità sovranazionale e nell’assoggettamento dell’azione pubblica nazionale ai vincoli del Patto per la stabilità e crescita. In particolare, la moneta unica garantiva, per le economie che l’accettavano, più convenienti condizioni finanziarie nel breve periodo in quanto eliminava il rischio di cambio e, con l’abbattimento delle attese inflazionistiche, permetteva la riduzione dei tassi d’interesse. Tuttavia essa costituiva, con riferimento al più lungo periodo, una pressione per l’omologazione di economie profondamente asimmetriche dal punto di vista economico e istituzionale: non potendo più competere attraverso modificazioni delle relazioni nominali, esse avrebbero dovuto migliorare la loro competitività reale ai livelli delle economie più dinamiche.
Un tale condizionamento è apparso evidente nell’Italia del 1992 quando gli squilibri accumulati nel decennio precedente hanno reso la situazione insostenibile con l’appartenenza allo Sme. Per quanto le pesanti finanziarie e la drastica svalutazione della lira abbiano allentato il duplice condizionamento di un crescente debito pubblico e di una decrescente competitività internazionale, la situazione politica ed economica di fondo non risulta risanata quando il governo Prodi alla fine degli anni ’90 prende la decisione di partecipare fin dall’inizio all’Unione economica e monetaria. Attraverso l’euro si vuole disciplinare (come del resto era stato fatto agli inizi degli anni ’80 con il “divorzio” della Banca d’Italia dal Tesoro) la società e la politica italiana per realizzare la necessaria trasformazione delle modalità di governo dell’economia: la rinuncia alla sovranità monetaria avrebbe imposto alle imprese innovazioni reali non potendo più contare su svalutazioni competitive della lira; al settore pubblico una determinante pressione esterna per contenere il deficit e ridimensionare il debito pubblico; ai sindacati la necessità di tener conto nelle loro richieste salariale dei più stringenti vincoli nominali posti dal contesto monetario internazionale. Si è trattato di una scelta che, come si è detto, ha garantito per un decennio condizioni finanziarie e valutarie più favorevoli, che peraltro non sono state sfruttate per avviare la auspicata trasformazione strutturale degli attori di politica economica. La partecipazione all’Unione monetaria europea non accompagnata da una crescita della competitività dell’intero sistema è una condizione sufficiente a indurre il declino del paese e, nel contempo, la condotta monetaria decisamente antinflazionistica per tenere sotto controllo il conflitto distributivo ha inciso, come reclamato dalle imprese, sul sistema dei diritti dei lavoratori e delle garanzie di welfare dei cittadini, ritenuti i principali freni del rilancio produttivo.
La grande scommessa dell’euro si può sintetizzare nella convinzione che il vincolo della moneta unica avrebbe costretto la classe dirigente, economica e politica, ad avviare una stagione di riforme istituzionali per dare una risposta positiva agli squilibri da lungo tempo accumulati, favorendo una politica economica di ridefinizione dell’apparato produttivo e una politica sociale di contenimento degli effetti che le strutture economiche in gestazione avrebbero avuto sui diritti di cittadinanza. La storia dimostrerà l’irrealismo di una tale prospettiva, caratterizzandosi la politica economica nei successivi governi Berlusconi per l’attesa di uno spontaneo miracolo economico che sarebbe seguito alle riforme del mercato del lavoro e per una politica sociale consapevolmente indifferente al ristagno dell’occupazione, al suo deterioramento qualitativo, alle crescenti disuguaglianze all’interno del corpo sociale.
Due diverse contrapposte visioni del rapporto tra politica economica e mercato che esprime la contrapposizione altrettanto netta presente nel corpo politico-elettorale, hanno fatto prevalere, nell’ultimo decennio, governi orientati alla mera accettazione degli equilibri sanciti dal mercato (nemmeno concorrenziale). Il lungo prevalere di una classe dirigente, politica e non, nel cui orizzonte manca ogni prospettiva né per assistere l’apparato produttivo nel fronteggiare le più stingenti condizioni di competitività internazionale, né per rimodellare lo stato sociale in coerenza con le regole imposte dall’appartenenza alla nuova Europa, induce a ritenere che, per la comprensione dello stato attuale, sia del tutto irrilevante la questione del ruolo che ha avuto a questo proposito la nostra partecipazione all’euro. È altamente plausibile che, rimanendo al di fuori dell’area monetaria europea, il deterioramento sociale sarebbe stato ancora più rapido e incontrollato per il realizzarsi di uno scenario di inflazione-svalutazione esacerbata dalla pressione finanziaria internazionale.
La pressione finanziaria internazionale che si fa viva ora sfrutta appunto l’inconcludenza (del nostro paese, ma anche di altri paesi, quali per il momento quelli del Sud Europa) nel ricostruire un solido assetto economico-sociale. La fragilità economica (scarsa crescita), politica (aumentato peso dell’indebitamento pubblico) e sociale (crescenti disuguaglianze) è l’elemento che eccita la speculazione internazionale. La finanza internazionale, e quella delle agenzie di rating che ne orientano le attese, nella ricerca di ricostituire i propri bilanci depauperatasi nella crisi, scommettono che alcuni paesi con un alto rapporto debito/pil non saranno in grado nei prossimi anni di soddisfare gli impegni finanziari assunti. Anticipare le difficoltà di gestione del debito pubblico implica la caduta dei corsi dei titoli pubblici e il conseguente aumento del tasso di interesse per incorporare l’aumentato premio per il rischio. Si noti che con queste operazioni il sistema finanziario non attiva alcuna concessione di credito, necessaria a sostenere una domanda poco dinamica, ma opera per una redistribuzione della ricchezza esistente tra chi mantiene in portafoglio i titoli soggetti a speculazione e chi ha anticipato la svalutazione dei loro prezzi. Se poi qualche banca, come quelle tedesche e francesi nel caso greco, mantiene i titoli svalutati in portafoglio, saranno le loro azioni a essere soggette a speculazione.
Tra gli effetti di questo normale comportamento finanziario va richiamata l’attenzione su uno in particolare. È noto che, aumentando il premio per il rischio sui titoli dei paesi che si presume avranno difficoltà a rispettare in futuro gli impegni assunti, si impone forzatamente il risanamento dei loro conti in tempi più brevi di quelli fisiologicamente auspicabili. Il disciplinamento da parte del mercato (finanziario) accentua in questo modo le difficoltà di finanziamento corrente del debitore pubblico e aumenta l’onere sul debito contratto per un periodo di tempo più lungo, anche per effetto dell’autorealizzarsi delle aspettative iniziali. Per il risanamento dei bilanci pubblici si deve ricorrere al contributo di soggetti non-possessori finanziari (come è evidente dalla nostra ultima finanziaria) con una riduzione dello spazio dell’intervento pubblico, divenendo essenziali tagli incisivi della spesa in quanto sono esclusi aumenti della pressione fiscale (sui redditi più elevati). È un contesto in cui la valutazione di insostenibilità dei conti pubblici si estende a diverse realtà statuali tanto da apparire frequente, nella comunicazione di massa, la possibilità di un “fallimento dello stato”. Lungi dall’essere un termine puramente evocativo delle difficoltà finanziarie dell’ente pubblico, esso si presenta – come dimostra il dibattito corrente negli Stati uniti – come una concreta possibilità normativa di rilevo costituzionale: gli stati possono (essere lasciati) fallire e pertanto essi debbano essere assoggettati a procedure di diritto (quasi) commerciale, in modo da permetter loro di concordare la rinegoziazione di tutti i “contratti” in essere con le diverse loro controparti (dipendenti pubblici, cittadini, pensionati). L’ente pubblico perderebbe la natura di garante collettivo del futuro per risultare omologo ai privati con i quali sarebbe in concorrenza per i suoi servizi. Una trasformazione radicale dell’attuale struttura istituzionale che costituirebbe un passo decisivo verso quella democrazia (liberale) che, nel presagio di Fukuyama, dovrebbe alla fine riguardare tutte le società in quanto regolate esclusivamente da rapporti che emergono dagli scambi sul mercato.
Se questo è il contesto in cui si trova ora l’Europa, e con lei l’Italia, è molto difficile dire dove essa possa andare. L’obiettivo prioritario sarebbe di riacquistare una effettiva autonomia nella gestione del proprio futuro e ciò significa potersi sottrarre alla soggezione della finanza internazionale. Non so se l’Esfs è stato pensato come un primo passo in questa difficile (perché altamente conflittuale) direzione, ma è certamente la ridefinizione dell’assetto finanziario internazionale l’aspetto rilevante affinché l’Europa possa avviare la costruzione di un assetto di politica economica che permetta di difendere il proprio modello economico e sociale, garantendo nel lungo periodo condizioni di convivenza tra le diverse aree interne per quanto caratterizzate da asimmetrie e da fragilità.
Ma è a questo proposito che si manifesta una difficoltà dirimente, l’esistenza nel corpo sociale europeo di una contrapposizione – tra i differenti stati e all’interno di ciascuno di essi – di visioni radicalmente alternative sul modello di società che si intende realizzare. È tutt’altro che maggioritaria una prospettiva diversa dalla “società di mercato” proposta-imposta finora nei fatti. È qui che si coglie la forza culturale neoliberista, di quel friedmanismo aggressivo che ha prodotto i Chicago boys in missione nel mondo, che, anche per aver contagiato ampi settori di (centro)sinistra, ha reso e rende i diversi “socialismi” occidentali – da Obama all’economia sociale di mercato e a prospettive più radicali – incapaci di rappresentare a livello di cultura di massa una contrapposta proposta convincente di società intorno alla quale realizzare un’ampia aggregazione sociale.
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