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Una risposta a Bankitalia

11/02/2014

Dopo il nostro articolo sulla "privatizzazione del signoraggio", l'Istituto di via Nazionale smentisce che la rivalutazione del suo capitale sia un regalo alle banche. Ma se l’attività della Banca è una funzione pubblica per quale ragione allora le banche pretendono di vantare un diritto di partecipazione ai suoi utili?

Immediatamente dopo aver pubblicato su questo sito alcune considerazioni sulla “privatizzazione del signoraggio” prodotto dal Decreto Bankitalia è uscito un comunicato della Banca d’Italia sulle conseguenze della legge 29.01.2014 n. 5 (www.bancaditalia.it) che sviluppa una interessante, lunga e articolata argomentazione nel tentativo di dissipare i dubbi che la rivalutazione del suo capitale sia un regalo alle banche. O meglio ad alcune banche, dato che il 90 per cento è detenuto da dodici istituti finanziari di cui i primi tre (nell’ordine di importanza Banca Intesa, Unicredit, Assicurazioni generali) ne detengono il 70 per cento.

Per quanto il documento della Banca d’Italia sviluppi molte considerazioni note e condivisibili non contiene una risposta convincente alla questione cruciale, ovvero se l’operazione non si configuri come una privatizzazione del signoraggio sulla moneta legale. Una impressione che si fonda tra l’altro sulla sua stessa affermazione che “la Banca d'Italia era e resta un istituto di diritto pubblico” dato che svolge funzioni pubbliche (punto 1 del comunicato). Le banche (ora) private hanno una partecipazione in Banca d’Italia “per ragioni storiche” e questo rappresenta una “singolare anomalia giuridica” (www.lavoce.info/quanto-vale-la-banca-ditalia/) dato che alla loro proprietà formale del capitale non corrisponde alcun potere di gestione essendo escluse da qualsiasi possibile interferenza con la funzione pubblica. Ciò viene ulteriormente ribadito quando il comunicato sottolinea che l’indipendenza dell’Istituto (dal governo, e a maggior ragione dai privati) è sancita dalla normativa che ha dato origine al sistema europeo delle banche centrali.

Se quindi l’attività della Banca centrale è una funzione pubblica (la gestione della moneta cartacea) e da questo monopolio legale derivano esclusivamente i suoi utili, si pone allora la domanda: per quale ragione, per quale apporto sostanziale, le banche pretendono di vantare un diritto di partecipazione a tali utili? Il fatto che, negli anni Trenta, avessero una partecipazione in una (allora) banca privata alla quale poi sarebbe stato affidato una funzione pubblica con una trasformazione profonda dell’assetto normativo dell’intero sistema bancario non ha alcuna rilevanza sostanziale. La cosa che risulta evidente è che, dopo un secolo di cambiamenti istituzionali epocali, ci troviamo di fronte a un ceto politico-bancario (www.lavoce.info/banca-ditalia-e-il-mistero-delle-quote/) che rivendica come suo diritto una inconcepibile posizione di rendita, peraltro illogicamente giustificata dal comunicato quando conferma che, in caso di “statalizzazione”, si sarebbe andati incontro a un esborso “a carico del bilancio pubblico” (sempre nel punto 1 del comunicato).

L’anomalia, che avrebbe potuto essere sanata con la riforma del 2005 attraverso la pubblicizzazione dell’Istituto, e non con l’improprio disegno della sua trasformazione in una public company posseduta dalle banche privatizzate in quel torno di tempo, non sembra peraltro esser stata un errore, ma un obiettivo strategico per potersi garantire – ed è la questione di sostanza – attraverso la partecipazione al capitale della banca centrale, la partecipazione agli utili della stessa. È questa realtà che si scontra con la questione cruciale: chi ha diritto al “signoraggio”1 dell’emissione di carta moneta? Se esso è il vantaggio collettivo della fiducia ad utilizzare dei pezzi di carta per le nostre transazioni esso è un bene pubblico i cui proventi sono di proprietà della collettività. E su questo aspetto il comunicato della Banca d’Italia (punto 2) fornisce una risposta precisa: “[i] proventi dell'attività classica di una banca centrale”, il battere moneta, “[derivano] da una tipica attività di interesse pubblico” e pertanto gli attivi della Banca “non sono di proprietà dei partecipanti” e quindi su di essi le banche private non possono vantare alcun diritto. Ma da questa premessa è arduo giungere alla conclusione - contabilmente bizzarra – espressa dallo stesso comunicato che le banche partecipanti possono invece vantare un diritto sul “capitale”, quasi si potesse ritenere che la posta contabile “capitale sociale più riserve” non abbia alcun rapporto con l’attivo e il passivo di bilancio. I dividendi cui aspirano le banche (“che non potranno superare 450 milioni annui”, bella consolazione!) non scaturiscono proprio dal maggiore rendimento dell’attivo rispetto al passivo? È possibile che si possa sostenere che la produzione degli utili della banca centrale – frutto, si ricorda ancora, di un monopolio legale – sia il risultato della produttività del capitale versato negli anni Trenta? Per quanto interessanti, le considerazioni sul calcolo dei dividendi e sulla regolamentazione europea appaiono del tutto secondarie per una risposta a questa questione di sostanza.

Mi è anche facile concordare (punto 3) sul fatto che per il bilancio della Banca centrale la rivalutazione delle quote è una semplice scrittura che non cambia contabilmente il suo patrimonio; ma questa osservazione non risolve, se sfrondiamo il discorso degli artifici formali, la questione che è da una tale scrittura che si modifica economicamente la destinazione degli utili (merita sempre ricordare che sono frutto del signoraggio). Anche qui la Banca è correttamente trasparente: “[la rivalutazione] implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto […] rispetto a quello percepito negli anni recenti”. Se si accetta questa conclusione, non è tuttavia possibile comprendere la sua successiva affermazione che é infondato che “lo Stato comunque ci rimetterà, perché incasserà meno soldi ogni anno dalla Banca d'Italia”. Non è facile per il senso comune far conciliare questa affermazione con il fatto assodato che con questo provvedimento una consistente parte degli utili (i 450 milioni citati) non andranno - in ogni anno futuro - allo Stato ma alle banche private; rimane un mistero al maggior reddito che ne beneficiano le banche (e che non viene retrocesso allo Stato) quest’ultimo non subisca un minor incasso.

Ma è il punto 4 che rende tutta la questione quasi surreale se si accetta - come buon senso e buon governo richiede - che non vi sia alcuna giustificazione economica alla partecipazione delle banche private al capitale della Banca centrale. In questo punto conclusivo, il comunicato prende in considerazione il caso in cui le quote di partecipazione delle singole banche eccedano il limite del 3 per cento esse saranno costrette ad alienare la parte eccedente nei prossimi tre anni. Non è un ammontare di poco conto se si considera che i sei istituti finanziari che superano questa quota possiedono l’83 per cento del capitale della banca e, fatte salvo le quote del 3 per cento che potranno mantenere, dovranno collocare – e trovare chi è disponibile a sborsarne il valore – il 65 per cento delle quote per un ammontare di poco inferiore ai 5 miliardi di euro. Che un collocamento di questo genere presso altre banche sia altamente improbabile è dimostrato dall’impegno che si è assunto il nostro Istituto di riacquistarle (si dice temporaneamente) al prezzo rivalutato e ciò comporterà un esborso effettivo di fondi a favore delle banche e a carico della collettività. Per tranquillizzare l’opinione pubblica si stabilisce l’impegno che esse siano “ricollocate al più presto sul mercato”, come se questo fosse scontato. Ma cosa succede se la percezione della "qualità dell'investimento” non corrisponde alle aspettative, ovvero se le quote sono sopravalutate? Oltre alla impropria distribuzione di utili ci si potrebbe trovare nelle condizioni che la Banca centrale sia costretta a una gestione (in rialzo) dei dividendi per sostenere il “valore di mercato (!?)” delle quote oppure, in alternativa a doverne svalutare il valore di bilancio della parte non collocata e dover contabilizzare delle minusvalenze di bilancio. In entrambi i casi si registrerebbe una ulteriore deduzione della retrocessione degli utili al Tesoro, una diminuzione del signoraggio a favore della collettività.

 

1 Il signoraggio è il reddito che l’ente pubblico ottiene per il potere di stampare moneta; nel presente caso è rappresentato dagli utili della Banca centrale ottenuti dai titoli fruttiferi acquistati con emissione di moneta legale (che, come noto, è sostanzialmente priva di costo).

 

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