Si prepara una manovra restrittiva per 25 miliardi, e insieme un intervento "per la crescita": le due cose non stanno insieme. La ripresa non potrà esserci, in assenza di domanda sia interna che estera
Secondo quanto si apprende dalle prime dichiarazioni, il nuovo governo Monti procederebbe dapprima ad una nuova forte manovra fiscale restrittiva, e poi “in tempi brevi” ad un intervento per stimolare la crescita.
Si parla per il primo intervento di un minor deficit pubblico pari a circa 25 miliardi di euro. Ovvero, si prepara un provvedimento urgente che renda certa l’impossibilita di stimolare la crescita tramite risorse pubbliche. Il secondo provvedimento, dunque, nasce “azzoppato” dal primo, già prima di vedere la luce: la crescita si sostiene con gli investimenti, lo sanno tutti, mentre a noi rimarranno spazi solo per liberare la crescita, che famosi editorialisti suppongono imbrigliata dai lacci e lacciuoli dell’intervento pubblico ma pronta a scalciare non appena glielo permetteremo.
Per intendersi, sono allo studio una serie di interventi di cosmesi legislativa, alcune possibili privatizzazioni e liberalizzazioni (presumibilmente in funzione dell’ampiezza della maggioranza parlamentare che sosterrà il governo), e un’ulteriore riforma del mercato del lavoro. Per la verità, per quanto tutti noi utenti possiamo spesso odiare tassisti, notai e avvocati, non possiamo davvero ritenere che il PIL nazionale (1.556 miliardi di euro nel 2010) riprenderà a correre quando solo il supposto nefasto giogo di queste corporazioni sull’intera società italiana venisse sciolto. Sarebbe come se ci fossimo aspettati la crescita dalle “lenzuolate” bersaniane. E infatti, é sulla riforma del mercato del lavoro che molte speranze vanno accumulandosi.
Eppure, l’esperienza italiana dalla fine degli anni ‘90 ad oggi ha già ampiamente dimostrato che non portò crescita del Pil il “Pacchetto Treu” (1997), né la “Legge Biagi” (2000), né i diversi “Collegati Lavoro” alle leggi finanziarie che si sono succedute negli anni 2000. Queste misure hanno sì contribuito ad una modesta crescita dell’occupazione, fatto in sé lodabile e positivo. Ma hanno anche ridotto l’incentivo per le imprese a investire e innovare, incoraggiando un modello di sviluppo “cinese” basato sulla competizione giocata sul ribasso dei costi del lavoro (proprio mentre la stessa Cina cerca di spostarsi verso produzioni a maggiore valore aggiunto).
Queste riforme, infatti, cosí come verosimilmente quella in cantiere, hanno ridotto il potere contrattuale dei lavoratori e di conseguenza i loro salari (per tutti, non solo per i precari, per via dell’effetto di competizione di quest’ultimi), precludendo cosí la possibilità di stimolare la crescita del Pil tramite un aumento dei consumi. Senza aumento della domanda interna, difficilmente l’aumento dell’occupazione, di cui s’è detto, avrebbe potuto esser molto grande: le imprese avrebbero dovuto assumere lavoratori ... per produrre cosa?
Né potevamo attenderci che la domanda venisse dagli investimenti: com’è noto, oltre a ridurre i salari, l’uso dei contratti più o meno flessibili è stato principalmente incentivato dal minore cuneo fiscale e contributivo che vi grava. Con un tale doppio risparmio per le imprese (sui salari e sui contributi), anche un economista mainstream avrebbe previsto che queste si sarebbero orientate verso tecnologie a maggiore uso di forza-lavoro e a minore uso di capitale, dunque riducendo la propria domanda di investimenti. Questo è anche ciò che dovremo attenderci se le “misure per la crescita” saranno ancora misure tendenti principalmente a ridurre il costo del lavoro e il potere contrattuale dei lavoratori.
Infine, escluse la spesa spesa pubblica, i consumi e gli investimenti per le ragioni dette, potremo ancora sperare sulle esportazioni? A mio parere no. Come in tempi non sospetti ho scritto su questo sito, proprio la mancata crescita del Pil impedisce la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (nonostante la depressione dei salari, bel risultato!), variabile fondamentale per la competitività internazionale del paese. Questi maggiori costi generano a loro volta un’inflazione bassa ma strutturalmente maggiore dei nostri principali competitors commerciali,1 con annessa difficoltà per le nostre imprese a vendere all’estero (difficoltà aggravata dalla mancanza di investimenti in innovazione, di cui si è detto).
Insomma, la crisi italiana nasce prima della crisi dei mutui americani, è una palude di mancata crescita risalente almeno agli anni ’90. La crisi finanziaria, ha ragione Berlusconi, nasce dal fatto che l’euro è una moneta senza una banca centrale, e la sinistra sbaglia ora ad invocare l’austerità solo per ragioni tattiche. Oggi non possiamo attenderci grandi balzi né della domanda interna né di quella estera, e il nuovo presidente del consiglio – forse non può fare altrimenti – pensa a un provvedimento che, bloccando le finanze pubbliche, impedirà di fare qualcosa per cambiare la situazione. A meno di rapide inversioni di tendenza a livello europeo, ci attendono forse una recessione e certamente anni di ulteriore ristagno: sarebbe opportuno che proprio la sinistra al famigerato “secondo provvedimento” del nuovo governo, quando arriverà e qualsiasi cosa contenga, non appiccichi l’immeritata etichetta della crescita, da tanti anni invano attesa e, senza soldi per finanziarla, di certo non all’orizzonte.
1 Per una trattazione più approfondita, si veda il recente articolo D’Ippoliti C., Roncaglia A. (2011), “L’Italia: una crisi nella crisi”, Moneta e Credito, vol. 64 n. 255, pp. 189-227. Disponibile gratuitamente all’indirizzo: http://scistat.cilea.it
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