La crisi europea origina anche da una crescita delle disuguaglianze e dalle deregolamentazioni che invece di curare il malato ne aggravano la malattia
L’appello firmato da autorevoli studiosi (Étienne Balibar, Alberto Burgio, Marcello De Cecco, Giorgio Lunghini, Adriano Prosperi, Guido Rossi, Salvatore Settis et al.) sulle politiche di austerità nella crisi, e pubblicato dal Manifesto (22 dicembre 2013), ha ricevuto un autorevole commento critico di Michele Salvati sul Corriere della Sera (29 dicembre 2013). Salvati obietta che la verità affermata in quel testo è una “mezza verità” perché disconosce che oltre alla mancanza di condizioni soddisfacenti di domanda vi sono altrettante mancanze delle condizioni di offerta, ed in quanto portatore di “mezza verità” l’appello non è condivisibile, anzi rischia di essere dannoso, in quanto inutile e non educativo perché omette un pezzo di verità, quella appunto dei problemi dal lato dell’offerta.
Questa critica, seguendo Salvati, allora potrebbe essere estesa a numerosissimi studiosi che in campo economico da anni e con forza crescente sostengono tesi analoghe, ovvero che la crisi manifestatasi prima con il collasso della finanza creativa nel 2008 e poi trasmessasi nell’economia reale a livello globale e quindi concentratasi in Europa con la crisi dei debiti sovrani è stata esacerbata proprio dalle politiche di austerità espansiva che in Europa hanno causato il double dip e frenano l’uscita dalla depressione. Tra questi come non puntare il dito contro Buiter, De Grauwe, Eichengreen, Fitoussi, Krugman, Rodrik, Skidelsky, Stiglitz, Wren-Lewis, Wyplosz, ecc., che da anni criticano la dottrina dell’austerità espansiva che contrae l’attività economica ed attribuiscono al consolidamento fiscale praticato dall’Europa sia la crescita della disoccupazione sia quella dei debiti degli stati nazionali. Naturalmente questi economisti affermano anche altro, ad esempio che le crescenti disuguaglianze sostenute anche dalle politiche di de-regolazione dei mercati (lavoro e capitali) sono tra i fattori che hanno compresso la crescita dei redditi delle classi/categorie sociali che contribuiscono più di altri a sostenere la domanda effettiva. Quindi sempre a carenze strutturali di domanda aggregata si torna, via canali distributivi.
E qui veniamo ai problemi dal lato dell’offerta. Ma questo Salvati non lo dice, o non dice tutto il vero, essendo per lui i problemi di offerta diversi, opposti direi, da quelli che gli economisti precedenti individuano tra le cause della crisi. Mentre questi individuano anche nelle politiche di deregolamentazioni dei mercati, da quello della finanza sino a quello del lavoro soprattutto, senza escludere anche i mercati dei prodotti e dei servizi, l’origine dei problemi, altri, tra cui annovero Salvati, ritengono che siano proprio le mancate liberalizzazioni, le riforme non fatte, le eccessive regolamentazioni, anche le troppe tutele ed il troppo welfare pubblico, a rendere le economie intrappolate nella loro incapacità di evolvere, di cambiare, di essere dinamiche, come sono dinamici ed innovativi i sistemi meno regolamentati. Quali le economie emergenti, ma anche gli Usa o il Regno Unito che hanno conosciuto Reagan e Lady Thatcher, oppure la Germania dove Schröder ha avviato la stagione delle riforme strutturali post-unificazione. Mentre i paesi ritardatari, quali quasi tutti quelli europei, non hanno proceduto a fare le loro riforme strutturali, i loro “compiti a casa”, come avrebbero dovuto, al ritmo necessario, che la competizione globale richiede in modo imperativo.
Ma è proprio il connubio tra queste riforme strutturali e le politiche di austerità espansiva che in Europa ha esacerbato la crisi, che ad un certo punto, dal 2011, ha gettato il vecchio continente nella depressione perché le une e le altre hanno bloccato, anzi fatto regredire, i redditi di chi sostiene la domanda interna, i percettori di reddito da lavoro anzitutto, nell’illusione che la domanda estera avrebbe più che compensato la caduta di consumi ed investimenti privati, e di quelli collettivi (spesa pubblica). Ma così non è stato, un po’ perché queste politiche adottate come regola in tutti i paesi in disequilibrio hanno ristretto i mercati interni di tutti e quindi per ogni paese (eccetto Germania) sono venuti a mancare i mercati di sbocco in cui vendere l’invenduto interno. La storia è quella nota della “fallacy of composition”. I vincoli europei che impongono il consolidamento fiscale dettato dai parametri soglia del 60% debito/Pil, del 3% deficit/Pil, del pareggio di bilancio strutturale corretto per il ciclo come obiettivo di medio termine, a meno dello 0,5% di deficit/Pil, non lasciano margini di manovra per le politiche fiscali anti-cicliche, proprio perché sono ottusamente costruiti per politiche pro-cicliche: in presenza di crisi i vincoli impongono l’austerità trasformando la crisi in depressione; in presenza di ripresa economica gli stessi vincoli sono tali da frenarla e riportare il sistema nella crisi; solo con forte crescita i vincoli diventano meno stringenti ed alleggeriscono la morsa su debito e deficit in rapporto alla crescita del reddito. Proprio l’opposto di ciò che servirebbe e dovrebbe essere fatto. Il tutto ovviamente è stato aggravato dalla presenza di una moneta comune, che in presenza di politiche del rigore dettate dai Trattati e loro revisioni, rende praticabile solo la via delle svalutazioni interne che ogni paese è chiamato ad attuare e replicare imitando quello che fa il vicino. Non sono forse queste parte delle politiche dal lato dell’offerta che si chiede di attuare in modo progressivo?
Prendiamo il nostro paese, ad esempio. Che abbia dei problemi strutturali, dal lato dell’offerta, anche un cieco lo vedrebbe. Immaginare che non lo vedano gli estensori dell’appello potrebbe essere giudicato una operazione intellettualmente “politically incorrect”. Evasione fiscale, regressività di fatto del sistema impositivo, illegalità economica, inefficienza della giustizia civile, burocratizzazione della pubblica amministrazione, costi della (classe) politica e spreco delle risorse pubbliche, sfruttamento e scempio del territorio e dell’ambiente, per non richiamare i bassi e distorti investimenti in capitale intangibile, in innovazione, tecnologie, organizzazione, in conoscenza ed istruzione, nel digitale. Potremmo continuare... Ma una questione l’abbiamo trascurata, a cui certo Salvati è sensibile, il lavoro, anzi il mercato del lavoro.
Le riforme strutturali in tale campo hanno proceduto bene, lo attestano anche istituzioni internazionali. Per Oecd siamo stati il paese più virtuoso a ridurre le regolamentazioni su questo mercato. A inizio anni novanta avevamo un indice di protezione all’impiego oltre la media, lo abbiamo più che dimezzato, molto più di quanto fatto anche in Germania, ad iniziare dalla riforma Treu del 1997 per arrivare a quella Maroni del 2003, e oltre, abbiamo creato un vasto mercato di lavori flessibili. Contemporaneamente abbiamo riformato più volte il sistema pensionistico tanto che chi oggi entra nel lavoro (meglio nei lavori) non avrà modo di godere di alcun sistema decente di tutela di reddito quando si ritirerà. Abbiamo poi creato anche la platea degli esodati, un buco dell’ultima riforma (Fornero) a cui si cerca di porre una pezza ogni sei mesi perché neppure si sa quanti siano e quanti saranno gli “esodanti”. Sempre nel 2012 abbiamo anche neutralizzato l’articolo 18 sulla base dell’idea che ogni licenziamento non discriminatorio (formalmente per ora) possa essere semplicemente monetizzato con un indennizzo anche se il motivo economico non è giustificato, e ciò per accrescere l’occupazione ed attrarre investimenti esteri, lo abbiamo fatto saggiamente in periodo di profonda crisi. Anche sul terreno della tutela del salario reale abbiamo proceduto, legando prima la sua crescita alla contrattazione aziendale per poi accorgerci dopo quasi venti anni che questa copre non più del 20 per cento delle imprese con almeno 20 addetti, meno che venti anni fa, e quindi non contenti abbiamo anche neutralizzato nel 2009 il meccanismo di recupero dall’inflazione con l’applicazione dell’indice dei prezzi armonizzato Ipca che non copre più l’inflazione importata ma neppure tutta quella interna. Abbiamo anche depotenziato i contratti nazionali di lavoro, con il sistema delle deroghe e dei contratti separati, ma abbiamo fatto di più, ci siamo anche inventati il contratto di “prossimità” che con l’articolo 8 può addirittura ambire a derogare non solo dai contratti di settore, territoriali, aziendali firmati dai sindacati rappresentativi (in assenza di una legge che li certifichi tali), ma anche dalle leggi votate dal Parlamento, cosicché un contratto privato firmato da soggetti di cui è dubbia la rappresentatività ha più forza di una legge statuale. Qualcuno ha chiamato tutto ciò “deriva del diritto del lavoro”. Ma non basta, occorre fare di più! Perché tutto ciò non ha portato a nulla, se non ad assestarci nella situazione di “trappola di stagnazione della produttività”, di bassi salari, basse tutele, e bassa competitività delle nostre imprese. Perché flessibilizzare il mercato del lavoro è cosa diversa dall’innovare nel lavoro: il primo produce posti di lavoro a bassa produttività e bassa retribuzione, a volte sostituisce solo buona occupazione con cattiva occupazione; il secondo fa crescere la produttività, le retribuzioni, ed anche la domanda di beni e quindi l’occupazione.
Sì, credo anche io che oltre ad esservi un problema (più problemi invero) dal lato della domanda, di domanda aggregata stagnante e di politiche di austerità espansiva e di consolidamento fiscale, di troppo e pervicace rigore europeo e germanico, vi siano anche problemi di offerta, di crescita delle disuguaglianze che alimentano la crisi da carenza di domanda, e di riforme strutturali, di deregolamentazioni, di liberalizzazioni, che invece di curare il malato, producono effetti distorsivi, ed aggravano la malattia, in Europa, e in Italia.
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• Appello degli economisti “Urgente per l'Europa" il manifesto 22 dicembre 2013
• La replica di Michele Salvati sul Corriere della sera del 29 dicembre 2013:
quellappello-alleuropa-che-dice-solo-mezza-verita.pdf 1,53 MB
• Giovanni Dosi su il manifesto del 31 dicembre 2013:
Giovanni_Dosi_manifesto_31-12_2013.pdf 253,65 kB
• Lettera al Corriere della sera del 31 dicembre 2013 di Burgio, de Cecco e Lunghini:
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