Chi si dedica al riutilizzo e vuole farlo eticamente, dovrebbe prendere atto dell’intera filiera. A meno di non volere essere ingranaggio di un meccanismo articolato e discutibile
Il riutilizzo fa bene all’ambiente, e le cooperative sociali che raccolgono gli indumenti usati impiegano manodopera svantaggiata. Spesso i ricavi di questa attività vengono destinati ad azioni di carità e solidarietà. Tutto meraviglioso, ma solo a patto di scordarsi cosa succede dopo che gli abiti vengono venduti ai grossisti, e di non sapere cosa sia successo prima che l’abito entrasse nel circuito della seconda mano. Chi si dedica al riutilizzo e vuole farlo eticamente, non può fare a meno di prendere atto dell’intera filiera. L’alternativa è essere ingranaggio incosciente di un meccanismo molto ampio, articolato, e per certi aspetti discutibile.
L’offerta dell’usato dipende dalla rotazione degli indumenti nuovi (in termini di quantità e di qualità), dalla competizione commerciale dell’usato con il nuovo low cost, e anche dalle barriere applicate dai governi sull’usato di importazione come politica di protezione del settore locale del nuovo. Di fatto, per una serie di ragioni, l’offerta di indumenti usati è generata essenzialmente nei paesi con reddito procapite di fascia alta. Tra queste ci sono la maggiore rotazione di vestiti nuovi e l’aumento progressivo dei costi di smaltimento che incentiva lo sviluppo di raccolte differenziate. Usa e Ue hanno usato le esportazioni di indumenti usati per ridurre il proprio deficit commerciale ed, evidentemente, anche per limitare l’indipendenza produttiva tessile dei paesi a reddito basso e medio. Le esportazioni sono cresciute parallelamente alle negoziazioni per l’estinzione dell’Accordo Multifibre, che proteggeva le produzioni tessili dei paesi di reddito alto dalle importazioni dei paesi che possono generare offerte più competitive. Come hanno dimostrato i disastrosi effetti dell’interruzione da parte degli Usa dei canali privilegiati Agoa, che garantivano a un gruppo di paesi africani grandi volumi di acquisto dei loro prodotti tessili, la forza dei distretti tessili locali dipende in modo decisivo dai margini di autonomia dal commercio internazionale che solo la domanda interna può offrire; per questa ragione alcuni tra i principali paesi importatori di usato del mondo hanno iniziato a chiudere le loro frontiere agli abiti usati innalzando drasticamente le tariffe o mettendo al bando le importazioni.
È importante però notare che, dove le produzioni tessili locali non sono in grado di soddisfare la domanda interna, l’assenza di indumenti usati ha gravi effetti sul potere d’acquisto delle famiglie. Per questa ragione le triangolazioni di indumenti usati verso paesi dove vige moratoria hanno assunto proporzioni impressionanti. Tra le principali “frontiere porose” ci sono quella tra Tunisia e Algeria, quella tra Nigeria e Benin, e il porto cinese di Jieshi (che riceve 100 milioni di vestiti all’anno).
Le imprese no profit che lavorano nella raccolta e commercializzazione di indumenti usati sono quindi di fronte a un vero rompicapo: esiste un modo sicuro per poter lavorare senza provocare impatti indesiderabili sugli standard di vita delle popolazioni dei paesi che importano usato e senza alimentare economie criminali (problema particolarmente vivo in Italia, dove già i primi intermediari, ossia il secondo anello della filiera, sono soggetti a infiltrazioni mafiose)? In questo senso, non sembra avere molto significato domandarsi se le esportazioni dell’usato sono utili o dannose (risposta alla quale cerca di rispondere la maggior parte degli studi in circolazione, che assumono posizioni contrapposte dipendendo da chi li realizza). Appare più sensato domandarsi: a) quali sono gli strumenti, i processi e le modalità di governance capaci di produrre transizioni che preservino e incrementino i posti di lavoro e non abbiano effetti dolorosi sulla capacità di consumo delle famiglie? b) Quali segnali indicano l’esistenza di un conflitto con le esigenze dello sviluppo locale in relazione alla domanda interna? c) Per costruire filiere etiche che implichino investimenti nei paesi della domanda finale, come si conciliano i tempi di ammortamento e il proprio bisogno di continuità economica con la necessià di ritirarsi nel preciso momento in cui appaiono i segnali di conflitto con le produzioni locali?
In qualsiasi settore esposto al mercato internazionale, includendo il tessile in generale e gli indumenti usati in particolare, le realtà più solide e vincenti sono quelle che fanno parte di “sistemi” che riescono a mettere efficacemente in sinergia una pluralità di enti e ragioni sociali che complementano risorse operative, finanziarie e di capitale materiale e immateriale in base a meccanismi altamente flessibili. Il Centro di Ricerca Economica e Sociale Occhio del Riciclone ha elaborato un modello che cerca di superare la dinamica “bipolare” che caratterizza da un lato il mercato “selvaggio”, che scarica tutto il peso della fluttuazione del mercato sul lavoratore (il cui salario è estremamente flessibile nella logica della corsa al ribasso) e dall’altro i tentativi di generare un “commercio equo” dove sia il consumatore ad assorbire e pagare la rigidità di salario concessa ai lavoratori (tentativi che non hanno mai superato, o nella maggior parte dei casi neanche raggiunto, la dignità di “nicchie” di mercato). Il modello di “circuito modulare di sviluppo etico”, si fonda sul controllo da parte del no profit dell’intera filiera, grazie alla costruzione di “snodi di economia etica” posizionati in aree con grado di sviluppo e potenziale di mercato differenti e uniti tra loro da “rotte di sviluppo etico”. Gli snodi produttivi e distributivi del modello ottimizzano e integrano lavorazione, produzione e distribuzione del nuovo con quella dell’usato, hanno un alto livello di diversificazione e sono riconvertibili in base agli impulsi forniti dal mercato. Sono termometro giornaliero del mercato e delle sue implicazioni etiche e valvola di input-output dinamicamente assestabile in base alla pressioni, fluttuazioni e tendenze del mercato stesso. Allo stesso tempo sono motori di uno sviluppo locale etico, fondato su proposte solide e competitive, e pertanto capaci di creare avanzamenti solidi, concreti e riproducibili.
La possibilitá di programmare riconversioni guidate degli snodi in base alle evoluzioni del mercato eviterà i dolorosi fenomeni di “market disruption” tipici dei passaggi di fase economica delle zone produttive.
La grande differenza tra il circuito di sviluppo etico e i modelli portati avanti dalle grandi corporazioni e dai governi delle grandi potenze è che il circuito di sviluppo etico non risiede nell’accettazione o rifiuto delle tendenze generali del mercato, che obbediscono in buona parte a dinamiche di lungo termine che superano la possibilità di intervento sia dei governi che dei grossi poteri economici, ma piuttosto, oltre che nella visione e negli obiettivi, nell’istituzione di rapporti di forza maggiormente simmetrici, che vanno preservati e garantiti attraverso meccanismi di controllo e trasparenza che vedano la partecipazione di cittadini donatori e/o finanziatori e di rappresentanti di tutti i segmenti del circuito.
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