La fiction su Adriano Olivetti ci riporta l'immagine di un paese che, dietro la tentazione agiografica, nasconde l'incapacità di sostenere un'impresa tecnologicamente avanzata
Il recente sceneggiato televisivo su Adriano Olivetti, al di là del suo carattere agiografico ed in parte fumettistico, ha avuto comunque certamente il merito di ricordarci, rispetto allo squallore del presente, che in passato c’è stata un’epoca felice del grande capitalismo italiano.
Nel dopoguerra, oltre a quella di Adriano, figure come quella di Oscar Senigallia con lo sviluppo del settore siderurgico o come quella di Enrico Mattei con l’avvio delle attività energetiche, hanno indicato per qualche tempo, pur tra tanti problemi, che un’altra Italia economica era possibile e che la divisione internazionale del lavoro non lasciava necessariamente al nostro paese le briciole dei processi di industrializzazione dell’occidente.
In ogni caso l’Olivetti degli anni cinquanta e sessanta del Novecento merita un posto a parte nel quadro della storia imprenditoriale italiana; si potrebbe paragonare per molti aspetti la figura di Adriano a quella di Walther Rathenau in Germania. Entrambi hanno avuto la capacità di coniugare il loro importante ruolo imprenditoriale con un originale tentativo di influenzare la società in cui operavano e la stessa politica. Questo al di là dei risultati ottenuti. Entrambi sono venuti a mancare nel pieno delle loro forze. Rathenau fu ucciso dalle milizie proto-fasciste nel 1922, a 55 anni e Olivetti morì all’improvviso nel 1960 a 59.
I meriti di Adriano
L’imprenditore piemontese fu sicuramente un uomo che sapeva guardare lontano. È noto come già negli anni cinquanta egli concepisse delle mosse molto lungimiranti, quali quella dell’ingresso in forze negli Stati Uniti con l’acquisizione della Underwood e dell’avvio con rilevanti investimenti del settore dei computer.
Tra i suoi meriti ulteriori non può essere passato senza silenzio il trattamento di grande rispetto che l’azienda assicurava a tutti i suoi dipendenti. Così, quando un operaio si infortunava o acquisiva una qualche malattia debilitante, si trovava sempre il modo di assisterlo in tutti i modi e di aiutarlo in percorsi di inserimento lavorativo alternativo.
Avendo lavorato per diversi anni nel gruppo ma avendo anche frequentato prima e dopo moltissimi altri ambienti lavorativi, sia in imprese che in organizzazioni di altro tipo, chi scrive ha dovuto in effetti constatare che l’azienda di Ivrea era, tra quelle da lui conosciute, quasi l’unica che trattasse i suoi dipendenti come esseri umani e non come numeri o, peggio, come cani.
Le sue debolezze
Ma, naturalmente, non tutto quello che Adriano Olivetti faceva può essere presentato in un’aura quasi di esaltazione mistica, come tendono forse a fare i molti nostalgici di un’avventura imprenditoriale comunque unica nel nostro paese.
Bisogna intanto ricordare (ma questa peraltro non è stata una colpa) che le avventure di Adriano in campo culturale sociale e politico erano rese possibili da una posizione di rendita monopolistica posseduta dall’azienda sul mercato delle macchine per ufficio. Per molti anni essa produsse in particolare una calcolatrice scrivente a quattro operazioni, base fondamentale dei suoi alti profitti, che nessuno al mondo era in grado di replicare; il suo costo industriale era di 35.000 lire e il prezzo di vendita di 350.000 (citiamo a memoria).
Certo il manager di Ivrea non era obbligato a utilizzare i profitti aziendali nel modo che ora tutti ricordano; gran parte degli imprenditori che sono venuti dopo hanno impiegato importanti fette dei loro proventi, molto di frequente nascosti all’estero, nella speculazione finanziaria e dintorni, ciò che è all’origine, insieme certamente ad altri fattori, dell’attuale declino economico del nostro paese.
Mentre gli orizzonti strategici di Adriano erano audaci e lungimiranti, egli non si seppe però circondare degli uomini che avrebbero potuto sostenere adeguatamente le sue avvenute di crescita sostenuta, di espansione all’estero e di ingresso nel settore dei calcolatori. Certo, c’erano in azienda dei bravi tecnologi, dei bravi tecnici, dei bravi commerciali, spesso persone di prim’ordine, ma pochi che sapessero fare una sintesi complessiva dei vari business. E alla sua morte nessuno era stato preparato adeguatamente a prendere il timone.
Tra l’altro, chi venne subito dopo per salvare il gruppo dalle difficoltà in cui si dibatteva, Valletta della Fiat in primo luogo, cancellarono immediatamente l’investimento nel settore dell’elettronica, visto come una follia.
Altro punto debole dell’imprenditore piemontese era quello che egli non si intendeva di finanza e la sottovalutava fortemente; i conti sulle nuove iniziative e quelli complessivi nessuno li faceva adeguatamente. La funzione amministrativa era presidiata per la gran parte da qualche volenteroso ragioniere.
La fine
Quando l’azienda, in particolare dopo la sua morte, entrò in crisi, naturalmente gli stessi politici che poi avrebbero salvato anche le aziende dei panettoni evitarono accuratamente di dare in questo caso una mano.
L’azienda, più di recente, è stata sostanzialmente chiusa, anche se il suo nome circola ancora stampigliato su improbabili prodotti. Molti degli estimatori di Adriano tendono a dare tutte le colpe del misfatto a Carlo De Benedetti, che intervenne nel capitale dell’azienda alla fine degli anni settanta. Ma, in realtà, dopo la morte di Adriano si era innescata una lenta e sostanzialmente inarrestabile agonia, che il padrone di Repubblica e dell’Espresso ha solo portato a compimento. Poi è venuto il capo dei capitani coraggiosi, Colaninno ed è calato il silenzio.
Lo abbiamo capito, questo non è un paese che sia in grado di supportare o anche sopportare un’impresa tecnologicamente avanzata. Guardiamo come siamo riusciti, più di recente, sostanzialmente a sbarazzarci del controllo della STMicroelectronics, a suo tempo proprio avviata dall’Olivetti e ad ignorarne ormai persino l’esistenza. Eppure essa è una delle più avanzate aziende europee.
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