Sul Quirinale il PD non ha ascoltato le richieste della base e ha scelto, con la rielezione di Napolitano, una chiusura al cambiamento. Se non riesce a cambiare le organizzazioni, la spinta dal basso finisce per frantumarle
I movimenti sociali sono solitamente rappresentati come piazza contrapposta ad istituzione. In realtà, istituzioni economiche e politiche sono coinvolte, in vario modo, nelle ondate di protesta: molto spesso come bersaglio dall’esterno, ma anche talvolta come arena esse stesse di mobilitazioni. Lo stesso ‘sessantotto’ iniziò dalle contestazioni all’interno di parlamentini e associazioni studentesche, che vennero poi spazzate via dalla protesta. Occupy#pd, insieme alla rivolta degli elettori democratici contro la decisione del segretario del partito di candidare Franco Marini alla presidenza della repubblica è certamente un esempio di un movimento nelle istituzioni.
Come gli altri movimenti, anche quelli nelle istituzioni possono essere facilitati nel loro emergere sia dalle speranze prodotte dalla apertura di opportunità politiche che dalla reazione a chiusure di quelle opportunità, o a un mix delle due. La storia del movimento operaio è densa di momenti in cui le ondate di scioperi si accompagnano, spesso con qualche successo, alla contestazione della burocratizzazione di sindacati e partiti di sinistra. La democratizzazione dei processi di relazioni sindacali all’inizio degli anni settanta è certamente legata alle mobilitazioni dell’autunno caldo, e una capacità innovativa anche nella sinistra istituzionale hanno avuto il movimento femminista o quello ambientalista, attivando una riflessione critica anche all’interno delle istituzioni partitiche e sindacali.
Come per i movimenti sociali fuori dalle istituzioni, le opportunità sono spesso legate alle divisioni nelle élites, che si producono in momenti di crisi. Proprio la percezione di difficoltà interne spinge una parte dei gruppi dirigenti ad aprirsi agli stimoli provenienti dal basso. Le proteste accesissime che hanno mobilitato elettori, attivisti e (in altre forme) eletti del PD appaiono seguire in parte queste logiche di (limitate) aperture e (involontarie) alleanze. Da molti punti di vista, una mobilitazione dal basso nel partito è stata in parte stimolata da trasformazioni dall’alto, orientate ad affrontare evidenti e crescenti problemi nel partito. Le primarie, propagandate come strumento di democrazia, sono anche strumento di lotte intestine, con una mobilitazione competitiva dei partecipanti. In modo simile, gli appelli di una parte della vecchia dirigenza PD per un partito forte e identitario riconoscono le debolezze del partito “leggero”, cercando sostegno nei delusi dalle esperienze del passato prossimo.
Quelle proteste rappresentano però anche una sorta di effetto perverso (per i dirigenti) di quelli strumenti di mobilitazione, che si volevano limitati, e che invece sono sfuggiti di mano, o di quegli appelli identitari, che si volevano solo retorici, e hanno invece sollevato aspettative reali. Le primarie dovevano essere uno strumento di partecipazione limitata nel tempo e nel contenuto: la scelta dei rappresentanti. La esclamazione attribuita alla Finocchiaro “Ma cosa vogliono questi signori? La base? Non l’ho sentita” è una perfetta illustrazione del fastidio per una mobilitazione che non si è fermata nei limiti stretti che le erano stati assegnati. Altro effetto apparentemente inatteso delle primarie è poi l’ingresso in parlamento di alcuni eletti più giovani e, soprattutto, più dei loro colleghi di lungo corso legati alla loro base elettorale, e meno di loro alle gerarchie di partito. Il fastidio delle gerarchie PD verso le mobilitazioni di elettori e attivisti contro la candidatura di Franco Marini, e il suo affossamento in parlamento, testimonia dell’incapacità di prevedere questa sorta di espansione delle dinamiche di partecipazione, invocate a parole, ma poi temute nei fatti.
I movimenti sociali all’interno delle istituzioni possono portare a riforme, ma anche ad una chiusura settaria, o a un’oscillazione fra le due opzioni. Se la candidatura “anti-inciucio” di Romano Prodi aveva fatto pensare ad un partito che si apriva alle domande di cambiamento, che in qualche modo aveva contribuito a stimolare, la sconfitta di quella opzione e la candidatura “super-inciuciaria” di Giorgio Napolitano testimonia invece di una chiusura rispetto a quelle domande di alternativa che vengono da elettori e attivisti del partito. Certamente le divisioni profonde e le multiple fratture nel partito si riflettono nella debolezza di entrambe le scelte, e nell’incapacità del partito nel seguire l’unica opzione che sarebbe stata coerente con la promessa di partecipazione e premessa di un governo di cambiamento: l’appoggio alla candidatura di Stefano Rodotà. Il movimento nel partito sembra essere ora ignorato, a costo di un suicidio politico sulle cui cause molti si continuano ad interrogare. La proclamata necessità costituzionale di grandi intese a sostegno dell’elezione del presidente è una spiegazione poco credibile a fronte dei tanti presidenti, in Italia e all’estero, eletti a maggioranza semplice (lo stesso Napolitano ebbe appena il 55% dei voti). La propensione al compromesso, dagli effetti politicamente nefasti, con un avversario con le caratteristiche di Berlusconi è certamente incomprensibile, se non si considerano queste divisioni, oltre a potenziali ricatti collegati a connivenze passate e presenti. Non potendo sfociare in una riforma delle forme organizzative e dei programmi del partito, la mobilitazione dal basso sembra destinata ad accelerarne la frantumazione. La debolezza dell’opzione al cambiamento nei vertici del partito trasforma così un’opportunità di rigenerazione in un fattore di accelerazione della crisi.
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