Non faccio parte di coloro che si scandalizzano per il cosiddetto “datagate”. Da che esistono gli stati, uno spia l’altro, anche servendosi di persone illustri – Giordano Bruno spiò per l’Inghilterra – giacché sa passare le notizie soltanto chi ne ha accesso e ne comprende la portata. Quando Richard Sorge segnalò il prossimo attacco tedesco, Stalin non vi credette e benché molti antinazisti, specie di categorie superiori e in grado di sapere, abbiano lavorato per i servizi dell’Urss, non si usa dirlo perché il senso della patria, parente prossimo del nazionalismo, ha sopraffatto nel secondo dopoguerra l’internazionalismo del proletariato anche a sinistra; e per molte ragioni che sarebbe interessante esaminare. In ogni modo né Assange né Snowden mi commuovono, specie il secondo che aveva scelto la Cia come datore di lavoro. Faremmo bene a sapere che viviamo sotto molteplici occhi, e non solo dei servizi stranieri, in una globalizzazione sotto l’egemonia del capitale e in presenza d’una tecnologia che siamo i primi a venerare. La nostra privacy, ammesso che sia un valore, è protetta soltanto dall’eccesso di informazioni che pervengono ai molti che ci controllano, anche attraverso il web, superconfessionale laico, superscenario mediatico nonché sfogatoio universale e garantito dall’anonimato, più e meglio che nel passato. Amen.
Per dire che quel che trovo scandaloso nella faccenda di Alma Shalabayeva non è che Alfano e Bonino non sapessero ma che accettino come cosa normale che ci siano reparti di polizia vestiti di nero con catene al collo, oltre che con diritto di insulto allo straniero (o forse anche all’indigeno), che sono ufficialmente incaricati di catturare ed espellere il tizio o il caio purché “rispettino le procedure”. Appunto quali procedure? E quali sospetti e perché? Di quale corpo di polizia si tratta? Chi lo ha deciso? Con quale statuto e contratto? Abbiamo dunque un apparato dello stato che nottetempo può piombare mascherato da film horror e prelevare una donna, ancorché clandestina (ma non verificata come tale), imbarcarla segretamente su un aereo estero e rispedirla nolente in un paese dove non si sa se e quale reato abbia compiuto? Somigliamo più a un pessimo serial tv che a uno stato democratico.
Non solo; la stampa e i comunicati ufficiosi del governo scrivono che la signora, così brillantemente prelevata al grido di “puttana russa”, e la sua bimbetta, sarebbero moglie e figlia d’un dissidente kazako. Quel che però sappiamo di sicuro è che si tratta d’un tale che ha fatto dal niente fortune favolose ed è riparato nel Regno Unito per sfuggire ai tribunali del Kazakistan che lo accusano di varie frodi. Forse a torto, ma è sicuro che l’Italia non ne sa altro. La nostra stampa detta di informazione chiama dissidente qualsiasi affarista del gran giro di liquidazione dei beni pubblici, già sovietici, messo in circolo dal tandem Eltsin-Putin, quando si trattava di demolire l’Urss nella lotta fra oligarchi o baroni ladri, e diventato “dissidente” quando minaccia di denunciare i suoi simili passati al governo della Russia o delle repubbliche restituite alla “democrazia”. Tutto questo è di pubblico dominio, ma né il Corriere né Repubblica né i giornali minori se ne occupano, rivestendolo invece di abiti politici. Come se si trattasse di emuli della coraggiosa Politovskaia, anziché dei capi di una guerra per bande. Nella quale i servizi italiani si comportano anch’essi da banditi, beccati in fallo per essersi sbagliati di “nemico”.
È stata e continua a essere una resa di conti fra mascalzoni che non permette a un onesto di prendere parte per uno di essi.
Non dico Angelino Alfano, ma Emma Bonino su queste concrete figure della “democrazia russa” farebbe bene a riflettere.
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