Il reddito sociale garantito deve essere pensato come una istituzione del comune, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla ridistribuzione del plusvalore
Il reddito minimo d’inserimento, misura protezionistica altamente osteggiata e velocemente liquidata come poco efficace se non utopica, trascina con sé un valore altamente sociale che appartiene all’attuale realtà fatta di lavoro flessibile – laddove c’è! – accumulazione di reddito e scarsa rappresentanza dell’attuale forza lavoro.
“Chi voleva sapere sa…chi non vuol capire..” verrebbe da dire. Non mancano gli scritti autorevoli sulla sua efficacia e su come dovrebbe essere strutturato, proiezioni economiche di sostenibilità e soprattutto la questione reddito minimo si collega al recupero di quella distorsione che fa del sistema welfare italiano un insieme di strumenti che tutelano il lavoratore full-time a tempo indeterminato (questa sì che è la vera utopia) completamente staccato dalle reali urgenze di povertà. Gli scritti di Travaglini e Santini nell’approfondimento del tema proposto da Sbilanciamoci disegnano il quadro all’interno del quale promuovere tale azione, nel 2010 Marco Revelli, allora presidente del Cies (Commissione d’indagine sull’esclusione sociale) raccomandava l’utilizzo di tale strumento per uscire fuori dall’emergenza sociale lavoro, la Commissione Onofri parlava di una grave mancanza rispetto agli altri paesi d’Europa, e non in ultimo il network Bin Italia da tempo attivo sulla promozione di una legge popolare. Sembra che solo i decisori pubblici siano scettici in merito.
Insomma mettersi a ricercare sulla potenzialità e fattibilità di un reddito minimo, di un reddito di cittadinanza, di un reddito sociale o in qualunque maniera esso lo si voglia chiamare vuol dire aprire a tutta una serie di studi e testimonianze in positivo, fatta eccezione per l’allora ministro del Welfare Maurizio Sacconi che nelle sue proposte riportate nel Libro Verde “la vita buona nella società attiva” in ben due righe lo definiva poco efficace.
Eppure questo strumento continua a non partire, o quantomeno continua a non avere la dovuta attenzione per una sperimentazione reale, evitando gli errori della legge Turco con l’allora governo Ulivo, che propose una serie di misure totalmente scoordinate sotto molti punti di vista (1) e della quale Bronzini, in maniera magari un po’ brutale ma efficace, dichiarava “dell’intera legge del 1998 si salva un solo articolo: quello che contiene una clausola di autodissoluzione (dopo due anni) dell’intera normativa”.(2)
Poi venne la seconda sperimentazione (2001-2004) che spiega bene Travaglini nel suo contributo, eppure parlare di questa misura sembra ancora utopia per “freak” quando in realtà essa concerne motivazioni economiche ben chiare e definite nel sistema monetario della produzione capitalistica e la possibilità di una concreta alternativa. La questione che si pone in questo contributo è la natura ideologica alla base di questa misura che, a mio avviso, resta ancora confusa: strumento di ridistribuzione o nuova forma di produzione del comune?
Partiamo dal presupposto che ormai abbiamo capito che le politiche di austerity imposte dall’alto non hanno ragion d’essere né valenza scientifica, assumiamo quindi che in un sistema puramente liberale la sola forma per essere “competitivi” alla tedesca attiene politiche di precarizzazione del lavoro e smantellamento del welfare state e infine teniamo a mente le politiche monetarie decise altrove per il controllo del mostro dell’inflazione, pertanto si riduce l’offerta monetaria (credit crunch) e si riducono la produzione e il monte salari (nonostante non vi sia alcun riscontro di diminuzione del tasso d’inflazione).
La moneta svolge quindi la funzione autonoma assunta dal valore di scambio: nella situazione attuale del mercato globale e finanziarizzato, dove le politiche monetarie vengono stabilite a Francoforte, tutti i rapporti si presentano come rapporti monetari.(3) La moneta è diventata così lo strumento attraverso cui si attua lo scambio tra capitale e lavoro e si realizza, attraverso il salario, la costrizione al lavoro, staccando il valore della moneta dai processi di produzione reale e divenendo un prodotto discrezionale della Banca centrale nazionale prima e della Banca Centrale Europea poi, rafforzando così la sua peculiare autonomia.
Alla fine degli anni 90 l’economista Andrea Fumagalli sottolineava che un sistema in grado di generare un sovrappiù di ricchezza doveva necessariamente affrontare anche il tema della distribuzione di tale sovrappiù prodotto in un circuito dove il processo di accumulazione determina la condizioni di produzione e la distribuzione del reddito influenza le condizioni della domanda: il lavoro è così libero e retribuito purchè sottostia alle regole dell’accumulazione privata grazie al ricatto del bisogno e il salario varia al variare dei livelli di disoccupazione. Ed ecco così il meccanismo già sottolineato ai tempi e confermato nell’ultimo rapporto Ilo: cresce la produzione, cresce la produttività, diminuisce il salario reale a vantaggio dei profitti e delle rendite finanziarie.
Il reddito minimo garantito era quindi pensato come uno strumento di ridistribuzione.
Passano gli anni, la Olstrom vince il nobel per l’economia ed emerge sempre più forte la questione dei beni comuni. In un recente lavoro di Laurent Baronian e Carlo Vercellone “moneta del comune e reddito sociale garantito” (4) viene trattato il tema della moneta e del lavoro rispetto alle teorie sui beni comuni denunciando un’assenza ingiustificata della tematica nei dibattiti attuali, che peccano spesso di un “buonismo” che si riduce al solo significato della parola “comune” senza creare davvero processi di cambiamento concreti e dove il rischio di autoreferenzialità è sempre in agguato.
Per gli autori si tratta di rompere con l’identificazione storica abusiva, già citata in precedenza, che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito: “si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito” .Le teorie attuali dei beni collettivi trascurano così le forme di produzione all’origine di questi beni e non rimettono in questione l’egemonia del modo di produzione “privato” dove il pubblico è rimedio ai fallimenti del mercato ed il comune si limita all’eccezione senza proporre un paradigma alternativo ai fondamenti neoclassici della rappresentazione dell’economia.
In maniera puntuale gli autori sottolineano che “è il modo di cooperazione sociale del lavoro, la sua capacità di organizzarsi in modo alternativo rispetto alle logiche del capitale e dello Stato, che determina in ultima istanza la propensione di una serie di beni o di risorse ad essere gestita secondo i principi del comune.” Tale forma di autorganizzazione è funzione dei meccanismi di regolazione della moneta e di accesso ad un reddito in grado di sviluppare forme di cooperazione produttive alternative al lavoro salariato. Nell’approccio proposto, il Reddito Sociale Garantito deve essere pensato come una istituzione del comune ed un reddito primario per gli individui, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla ridistribuzione del plusvalore come affermava, giustamente ai tempi, Fumagalli. Questo perché l’economia basata sulla conoscenza si contrappone all’attuale economia che sottomette alla sua logica le condizioni collettive della produzione del sapere trasformando la conoscenza in merce fittizia e frustrando l’attuale generazione di giovani in lavori completamente estranei ai propri profili professionali, di studio e specializzazione. “In questo quadro, la proposta di un reddito sociale garantito incondizionato ed indipendente dal lavoro salariato è quella che ci sembra maggiormente incarnare una nuova tappa di socializzazione dell’economia. Essa s’iscrive in un progetto di società e di demercantilizzazione dell’economia in cui il rafforzamento dei diritti collettivi legati al sistema di protezione sociale (pensioni, sanità, sussidio disoccupazione, ecc.) andrebbe di pari passo con il passaggio da un modello di Welfare-State ad un modello di Commonfare” . Questo comporta una maturazione che aiuti a non fraintendere la richiesta di un reddito sociale garantito come scarsa volontà di lavorare (vedi il famoso “choosy” dell’allora ministro Fornero), e per salvaguardarsi da forme di sussistenza caritatevoli, tipicamente friedmaniane, per rendere appetibile ogni offerta lavorativa e mantenendo i“sussidiati”, come nel caso della prima sperimentazione, non solo in uno stato di indigenza, ma anche in una situazione di degradante minorità sociale.
Probabilmente un approccio di questo tipo è ancora più difficile da attuare rispetto a misure protezionistiche universali tese a compensare il “temporaneo momento di indigenza”, non considerando che la condizione strutturale dell’attuale disoccupazione non riguarda la contingenza della crisi ma è espressione dell’attuale modello economico di sviluppo.
Questo perché si tratta di invertire un paradigma fondamentale: un reddito così concepito andrebbe a remunerare quell’enorme massa di lavoro non retribuito costituito da tutte le forme di contratti precarizzati e straordinari nascosti dalla formula “a progetto” emancipandosi dal salario di produzione del valore e del plusvalore. Quindi reddito come istituzione del comune ossia reddito che risulta direttamente dalla produzione (del comune) e non dalla ridistribuzione.
Eppure le ostilità non sono solo dalla controparte. Ad oggi si fa fatica a ripensare nuovi rapporti lavorativi basati su competenze cognitive che superino i vecchi approcci contrattuali e non ci sono adeguati spazi di sperimentazione concreta, i movimenti di base troppo spesso affrontano il tema più per spot ad effetto che come risultato di un’analisi concreta e tutta la gran parte del Terzo Settore strutturato ha deluso la chiamata di Revelli quando vedeva nelle varie forme di associazionismo e cooperazione un laboratorio privilegiato per nuove forme di concepire il lavoro (5). Costituirebbe così un vero investimento sociale e una liberazione di energie creative per assicurare, per esempio, la riproduzione della conoscenza, ostacolata dalla mancanza di tempo, da un’intraprendenza uccisa all’origine, e dalla “malattia del terrore” di cui sono affetti i lavoratori cognitivi.
Questo permetterebbe lo sviluppo di forme di cooperazione attraverso meccanismi di risocializzazione della moneta e dei redditi indipendente dalla circolazione del denaro in quanto capitale. Il problema è che certi discorsi vengono bollati come vetero marxisti e inattuabili, ma il superamento del capitalismo non avverrà utilizzando le stesse categorie che hanno originato i problemi o mettendo qualche toppa sulla finanza, ma pensando il nuovo in una visione positiva del cambiamento in senso faucaultiano, quella che Negri definisce l’organizzazione biopolitica dell’esistenza tutt’intera, altrimenti l’esasperazione del conflitto sociale, come guerra tra poveri, sarà inevitabile e soprattutto non porterà a soluzioni.
1 in merito si veda Emanuele Ranci Ortigosa Il Reddito Minimo d’inserimento in La riforma del Welfare Dieci anni dopo la Commissione Onofri – il Mulino 2008
2 A. Fumagalli, M.Lazzarato Tute bianche – disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza DeriveApprodi 1999
3 Lapo Berti - Denaro come capitale –- Rivista Primo Maggio – Settembre 1974
4 A questo link il documento completo http://www.uninomade.org/moneta-del-comune-e-reddito-sociale-garantito/
5 Marco Revelli, La sinistra sociale oltre la civiltà del lavoro , Bollati Boringhieri 1997
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