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Reddito e lavoro devono coincidere

15/07/2013

Lavoro e reddito di cittadinanza non vanno posti in alternativa ma devono procedere insieme. La loro separazione sarebbe foriera di gravi problemi personali, economici e sociali

Buon senso, logica economica e la nostra stessa Costituzione, pure richiamata da Giorgio Lunghini, ci dicono che reddito di cittadinanza e lavoro di cittadinanza non vanno posti in alternativa, ma possono e debbono coincidere.

La Costituzione

La nostra Costituzione, oltre ad affermare che la Repubblica democratica è fondata sul lavoro ( art. 1), riconosce quest’ultimo come un diritto ed insieme un dovere. E l’art. 4 non lascia dubbi: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Ma altri articoli non meno rilevanti (in particolare quelli dei titoli I, II, III e IV, dedicati rispettivamente ai rapporti civili, etico – sociali, economici e politici), configurano un disegno e un progetto organico di democrazia industriale (aziendale), economica, sociale e politica, che le forze progressiste e lo stesso sindacato non hanno generalmente colto nella sua interezza.

Lo esprime bene il filosofo Guido Calogero: “La più solida democrazia nasce dalla molteplicità delle democrazie”.

La logica economica

In quanto alla logica economica, basti ricordare la convinzione di Keynes che “i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria ed iniqua della ricchezza e del reddito”. Sono due fallimenti che si causano reciprocamente e che vanno affrontati congiuntamente.

Oggi, lo possiamo meglio comprendere dall’esame delle vicende successive ai “trenta gloriosi” ( anni ’40 – ’70) con l’abbandono delle politiche keynesiane e post keynesiane e del welfare che mettevano al primo posto, e come presupposto del welfare stesso, l’obiettivo della piena occupazione (che si ripaga tramite il moltiplicatore).

Uno studio inglese, nell’immediato dopoguerra, (trad. it. L’economia della piena occupazione, Rosenberg & Sellier, Torino, 1979 ), metteva ben in chiaro che, per debellare la disoccupazione, era necessario ricorrere ad interventi pervasivi della mano pubblica, “limitatori, incentivanti, sostituitivi”; infatti: “tutti i ‘controlli’ direttamente associati con il pieno impiego si rendono necessari, in effetti, per l’assunzione dei compiti precedentemente svolti dalla disoccupazione e al ciclo economico. E non vi è alcuna ragione perché questi controlli non debbano essere democratici al pari di ogni funzione dello Stato. L’ideale è di sostituire al ‘controllo’ antisociale della disoccupazione, controlli consapevolmente adottati e manovrati democraticamente nell’interesse pubblico”. Federico Caffè aggiungeva, nella sua introduzione al volume: “le modificazioni imposte nel tempo trascorso rispetto all’epoca in cui questi convincimenti venivano espressi non dipendono, a mio avviso, dal fatto di aver costatato che la gestione dei controlli è difficile, ma dall’aver gradualmente dimenticato quell’ideale”.

Una crisi, quella attuale, nata dalla pretesa di separare l’efficienza dall’equità (prima l’efficienza capitalistica, poi la redistribuzione, una separazione che risale almeno a J. S. Mill e che è alla base di tutte le politiche dei due tempi); il mercato dalla democrazia (autoritarismo ed opacità nella produzione e nella economia e – dimidiata - “democrazia” nel politico); la finanza dalla produzione (ma che finisce prima o poi a ricadere rovinosamente sull’economia reale), l’ “Homo dignus” (“dignità” fondata sul lavoro sociale che “è venuta ad integrare i principi fondamentali già consolidati – libertà, eguaglianza, solidarietà -, facendo corpo con essi e imponendo una reinterpretazione in una logica di indivisibilità”(i) dall’ “Homo oeconomicus” dello sciocco utilitarista (A. K. Sen), con separazione dell’ “economics” dall’economia civile di Sylos, Zamagni e – a ben vedere - dello stesso Smith .

Se si prende a riferimento il modello della dinamica intersettoriale di Pasinetti dove lo sviluppo (o il declino) delle varie industrie e i relativi coefficienti di lavoro dipendono dalle variazioni della domanda ( interna ed internazionale) per i rispettivi prodotti e dalla differenziata produttività indotta dalle innovazioni, una garanzia di piena e durevole occupazione per un paese, non può che richiedere consapevoli politiche economiche e sociali.(ii)

La stessa tendenza storica della dinamica capitalistica vede la dislocazione della forza lavoro dai settori primari e secondari verso quelli terziari. Con incrementi di produttività che rallentano in direzione dei servizi, e in modo differenziato tra questi (Baumol), con il limite logico dei servizi alla persona (almeno di non volerli sostituire con i robot). Servizi, questi ultimi, che poco si prestano ad una produzione capitalistica, cioè al perseguimento del massimo profitto.

Punto centrale è la redistribuzione della maggiore produttività dei settori che la riscontrano, di volta in volta, in quel processo prima ricordato. Ciò può avvenire in più modi. Dalla redistribuzione del lavoro con diminuzione delle ore lavorate, con diminuzione della occupazione e dei prezzi, con la tassazione fortemente progressiva, con costituzione di fondi solidali nazionali contrattati tra le parti sociali da reimpiegare per l’occupazione di mercato e di non mercato(iii).

Scriveva Caffè: “L’esigenza di eliminare la destinazione a lavori squalificanti, e per l’intera esistenza, di una frazione soltanto, della popolazione è stata da tempo lucidamente analizzata presso la cattedra di pedagogia della facoltà di lettere dell’Università di Roma e ha portato ad esplicitare proposte per un ‘servizio civile obbligatorio di lavoro’ che dia diritto a un ‘credito educativo’ da spendere in ‘periodi educazione permanente nel corso della vita produttiva” (iv). E riprese, da un articolo dell’Economist (!), il concetto dello Stato come “occupatore di ultima istanza”; che non ha nulla a che fare con i lavori inutili ma da riferire a quanto detto sopra. Garanzia di un’adeguata domanda globale, ma anche una gestione selettiva della stessa (v), oltre che politiche attive del lavoro.

Una questione di buon senso

Ci conforta, infine, lo stesso buon senso. Lo espresse in modo appassionato, nell’immediato dopoguerra, Giorgio La Pira, richiamandosi al Beveridge: “La disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è, perciò, uno sperpero di forze produttive (oltre che essere un disastrameno morale e spirituale della persona). E la ragione è evidente: i disoccupati esistono: se esistono devono vivere: per vivere devono consumare: è questo il paradosso economico della disoccupazione”(vi).

Giuseppe Bagarella, edile da tre mesi senza lavoro, si suicida lasciando un biglietto: “Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione”.

Il noto psicologo Erickson ci avverte che si diventa veramente adulti quando si riconosce di aver bisogno di chi ha bisogno di noi. E il lavoro sociale è sicuramente il veicolo, forse il principale, di tali riconoscimenti.

Non basta “spartire” in modo più ragionevole ed equo il lavoro esistente, ma occorre moltiplicare e migliorare quel “pane”(vii).

In una delle sue ultime riflessioni, Claudio Napoleoni ritornava sul concetto di alienazione di Marx, come caratteristica della produzione capitalistica, è cioè della separazione tra la persona e la “forza lavoro”, intesa come merce esitata sul mercato. A differenza di quanto avviene [nei sistemi precapitalistici], il capitalista e l’operaio sono entrambi “dominati” dalla cosa, “attraverso il meccanismo impersonale del mercato”. Si verifica un’ “inversione di soggetto e predicato … per la quale l’uomo il ‘soggetto’ non è altro che il predicato del proprio lavoro”. [ …] La differenza tra proletario e capitalista può essere individuata nel fatto che la liberazione determinata dall’azione del primo è la liberazione di entrambi da una condizione comune, e che non è meno comune per il fatto che dall’uno è vissuta come ‘sofferenza’ e dall’altro come ‘appagamento’”.(viii)

E Paolo Sylos Labini vedeva, nelle forme di democrazia industriale, una modalità di superamento di questa alienazione: “In prospettiva, la fine dell’alienazione può significare la fine del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto”.(ix)

La storia delle battaglie del lavoro e del movimento sindacale è parte della battaglia per la libertà non meno che per la giustizia sociale. Nonostante i molti “disincanti” non dobbiamo rinunciare alla libertà dell’utopia, ci consiglia Claudio Magris, ma senza abbandonare il coraggio del concreto riformismo, per una “civiltà possibile” (Keynes) qui ed ora.

Dunque, lavoro e reddito di cittadinanza. Il lavoro” che va diminuendo è quello capitalistico, non quello della concezione estensiva dell’art 4 della Costituzione; quello capitalistico, quello faticoso ed alienante va meglio distribuito, l’altro (soprattutto quello dei servizi alla persona) deve essere in qualche modo finanziato per interessare sempre di più tutti (liberati progressivamente dal primo, come pensava lo stesso Keynes). La loro separazione – salvo i periodi di transizione nei suddetti processi congiunturali e strutturali - sarebbe foriera di gravi problemi personali, economici e sociali.

 

i S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza Roma-Bari 2013

ii Cfr. L. L. Pasinetti, Dinamica strutturale e sviluppo economico: un’indagine teorica sui mutamenti nella ricchezza delle nazioni, Utet Torino 1984.

iii Una recente proposta per la costituzione di un fondo solidale per l’occupazione con contributi volontari del mondo del lavoro attivo e pensionato, avanzata dalle Associazioni Generazioninsieme e Centro studi Federico Caffè in un seminario del 28 gennaio u.s., presso il CNEL, non ha catturato l’interesse delle forze sindacali alle quali era prevalentemente indirizzata. (http://www.cnel.it/application/xmanager/projects/cnel/attachments/shadow_riunioni_attachment/file_allegatos/000/230/500/Invito_20al_20convegno_20del_2028.pdf).

iv F. Caffe, Un economia in ritardo, Boringhieri, Torino, 1976, p. 73

v L. Klein, Teoria dell’offerta ed ella domanda, Giuffrè 1984

vi “L’attesa della povera gente”, Cronache sociali, n. 1, 15 aprile 1950

vii G. Mazzetti, Quel pane da spartire, teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro, Boringhieri, Torino 1997

viii C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Boringheiri, Torino 1985, pp. 53-57.

ix In P. S. Labini e A. Roncaglia, a cura, Per la ripresa del riformismo, Nuova Iniziativa Editoriale, Milano 2002, p. 208.

 

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Commenti

Riduzione della settimana lavorativa a trenta ore settimanali senza diminuzione della retribuzione.

La citazione tratta dalla "cassetta degli attrezzi" della working class, viene utilizzata principalmente perchè era già parte della propria visione del mondo, prima della sua lettura.

« Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa e quanto più può essere abbreviata la giornata lavorativa tanto più potrà crescere l’intensità del lavoro. Da un punto di vista sociale la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia. Quest’ultima comprende non soltanto il risparmio nei mezzi di produzione, ma l’esclusione di ogni lavoro senza utilità. Mentre il modo di produzione capitalistico impone risparmio in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza determina lo sperpero più smisurato dei mezzi di produzione sociali e delle forze-1avoro sociali oltre a un numero stragrande di funzioni attualmente indispensabili, ma in sè e per sè superflue.
Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata per la libera attività mentale e sociale degli individui sarà quindi tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente su tutti i membri della società capaci di lavorare, e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sè la necessità naturale del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto dell’abbreviamento della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse. » (1867)

Karl Marx - Das Kapital. Kritik des politischen Oekonomie
(1° libro cap XV - Variazioni di grandezza nei prezzi della forza-lavoro e nel plusvalore)

Mai più figli e figliastri

“Una recente proposta per la costituzione di un fondo solidale per l’occupazione con contributi volontari del mondo del lavoro attivo e pensionato […] non ha catturato l’interesse delle forze sindacali alle quali era prevalentemente indirizzata”.

Perché ci si meraviglia? Ripeto (cfr. ad es. http://cesaredamiano.wordpress.com/2012/02/17/lavoro-abolire-cigs-ne-saggio-ne-utile/): bisogna togliere il "monopolio" della gestione della CIG ai sindacati, i quali per mantenere ed accrescere il loro potere sono contrari all'introduzione del Reddito minimo garantito (Rmg), presente in tutti gli altri Paesi UE, tranne Grecia e Ungheria, che dovrà appunto sostituire la Cig e che porrebbe su di un piano paritario TUTTI i cittadini, evitando la terribile prassi italica di distinguere tra figli e figliastri, che a me sembra un'esigenza minimale ed un obiettivo connaturato ad un partito di sinistra come il PD! "Eguaglianza e giustizia sociale", dev'essere il motto e la stella polare!
Per l'amministrazione del Rmg, i sindacati sono invece esclusi; vedasi il DdL Ghedini-Passoni-Treu, integrato dalla Commissione d'indagine sull'esclusione sociale, cfr. Lettera di PDnetwork http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2593370.html , già linkata in passato:
“- introduzione di un soggetto ad hoc, snello ed autorevole, che dia lavoro e formazione alle persone disoccupate ed inattive in cambio di un salario di cittadinanza, adeguatamente disciplinato; integrando nell'amministrazione, così come viene proposto dal DdL “Ghedini-Passoni-Treu”, artt. 12 e 13, e prospettato dallo studio della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale [9], i preesistenti Uffici provinciali del Lavoro ed i servizi sociali degli Ambiti Territoriali, integrati da risorse umane specializzate, nonché l'ISFOL e Italia Lavoro;”.

Purtroppo (basta leggere il suo blog), anche l'on. Damiano, attuale presidente della Commissione Lavoro della Camera, (non a caso ex CGIL), preoccupandosi soltanto della CIG, è uno di quelli che persistono ad attuare la solita, terribile, iniqua politica italica dei figli e dei figliastri.
Vanno invece tutelati TUTTI i disoccupati e la parte di inattivi che è disposta ad iscriversi, accettando la relativa disciplina, ai Centri per l'impiego riformati, attuando 3 misure anti-crisi indispensabili per far fronte alla crisi economica ed occupazionale che durerà almeno 15 anni:
1) reddito minimo garantito di 1° e 2° livello;
2) casa ad affitto sociale, realizzando un corposo piano pluriennale di alloggi pubblici di qualità;
3) riforma del lavoro precario, facendolo costare di più di quello stabile.

Ecco da chi prendere le risorse finanziarie per l’Rmg ed il piano casa:

“(Più) ricchi e (più) poveri
Negli ultimi dieci anni la ricchezza finanziaria netta è passata da 26.000 a 15.600 euro a famiglia, con una riduzione del 40,5%. Ma questa è la media. Nel dettaglio, le cose sono andate in maniera diversa: la quota di famiglie con una ricchezza finanziaria netta superiore a 500.000 euro è raddoppiata, passando dal 6% al 12,5%, mentre la quota di ricchezza del ceto medio (compresa tra i 50.000 e i 500.000 euro, e comprensiva anche dei beni immobili) è scesa dal 66,4% al 48,3%. C'è stato inoltre uno slittamento della ricchezza verso le componenti più anziane della popolazione: se nel 1991 i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni detenevano il 17,1% della ricchezza totale delle famiglie, nel 2010 tale quota è scesa al 5,2%”.
(Dal Rapporto Censis 2012).

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