La produzione industriale cade di nuovo a gennaio, la ripresa si allontana e l’industria italiana continua a perdere pezzi. È il momento di ritornare a politiche che guidino il cambiamento dell’industria e delle tecnologie
L’industria torna a fare notizia. Il governo vende pezzi di Finmeccanica e azioni Enel, e Mediaset vuole comprarsi Raiway. La Fiat annuncia assunzioni e Matteo Renzi è “gasatissimo” dalla sua visita alla Fiat a Torino. Ma stiamo attenti agli errori di prospettiva. Sulla situazione della Fiat – ora FCA – e dell’industria italiana c’è poco di cui rallegrarsi. L’investimento più importante della FCA ora è una nuova fabbrica a elevata automazione in Brasile e le nuove (poche) assunzioni in Italia arrivano dopo un ridimensionamento drammatico di produzione e occupazione. Quanto all’Italia, la produzione industriale è oggi di quasi il 25% inferiore ai livelli pre-crisi del 2008, mentre la Germania ha recuperato pienamente i livelli produttivi precedenti.
Quello che il governo dovrebbe fare in una situazione come questa non è vendere altri “gioielli di famiglia”, ma tornare a fare politiche industriali e tecnologiche. Lo sappiamo, è da trent’anni che non se ne può parlare: sembrano brutte parole per la gente per bene, inclusa la sinistra moderata e riformista, e non solo in Italia. Adesso si sta ritornando a parlarne, ma in maniera ancora timida e incompleta.
Si tratta di interventi che vanno dalle politiche tecnologiche – che favoriscono l’accumulazione di competenze nelle imprese, e di conoscenze nel settore pubblico – fino agli interventi sulla struttura stessa dell’industria, aziende pubbliche incluse. Il libro di Mariana Mazzucato, Lo stato innovatore (Laterza, 204) rappresenta un’ottima analisi del ruolo centrale che lo Stato ha avuto nella generazione della maggior parte delle nuove tecnologie che utilizziamo oggi: Internet, il web, il microprocessore, l’iPad e così via. Allo stesso modo, la maggior parte dei farmaci innovativi che Big Pharma ci vende a carissimo prezzo fu scoperta inizialmente nei laboratori del National Institute of Health. Le politiche più efficaci tendono a essere quelle dette “mission oriented”, quelle in cui il governo dice alle imprese: “Vorrei che tu facessi questo prodotto con queste specifiche tecnologiche e ti pago per farlo”, sia esso un missile o una terapia anticancro. Oggi, ragionevolmente, le mission dovrebbero riguardare la sanità e l’ambiente, innanzitutto.
Questo è diverso dal fornire incentivi: gli incentivi sono più costosi e meno efficaci, perché è come dire alle imprese private: “Tu sai cosa fare, però non lo fai perché non ti rende abbastanza, allora ti do io i soldi per farla”. L’esperienza però dimostra che gli incentivi al margine non funzionano: in Europa, per esempio, negli anni sessanta e settanta i governi hanno sussidiato massicciamente l’industria dell’elettronica, con scarsissimi risultati. I semiconduttori sono un ottimo esempio: è un settore che in Europa è dominato da un’unica grande impresa, la STMicroelectronics, che viene dalle partecipazioni statali italiane e francesi. Idem per il settore dell’aeronautica commerciale: se non fossero intervenuti gli Stati europei oggi non avremmo l’Airbus, e l’industria europea dei grandi vettori commerciali non esisterebbe.
A veder bene, scopriamo così che le politiche industriali ci sono sempre state: ieri erano dirette all’elettromeccanica e alla chimica, oggi sono rivolte alle tecnologie dell’informazione, alle nanotecnologie e alla bioingegneria. E scopriamo che uno dei paesi che oggi le pratica di più (senza parlarne) sono proprio gli Stati Uniti, in violazione di tutti i dogmi sull’efficienza dei mercati che sanno “fare da soli”. In Italia invece, anche prima del liberismo selvaggio, molte delle politiche sono state anti-industriali: dal rifiuto da parte del governo di appoggiare l’Olivetti all’inizio degli anni sessanta – probabilmente sotto pressione americana – alla finanziarizzazione della Montecatini, dalla distruzione della Montedison, alla liquidazione dell’Iri, fatta in un giorno sullo yacht Britannia nel settembre del 1993 per avere “pochi soldi, maledetti e subito”, distruggendo un patrimonio tecnologico notevolissimo.
Il risultato generale è stato un abbassamento della già poca ricerca che si faceva in Italia. Telecom è un ottimo esempio: una delle prime cose che hanno fatto i privati è stato chiudere il settore ricerca e sviluppo. Per cui oggi in Italia ad avere laboratori di ricerca e sviluppo sono rimaste poche grandi imprese, come Finmeccanica (che continua ad essere una partecipata dello Stato) e STMicroelectronics. Negli ultimi quarant’anni siamo riusciti a ridurre quasi a zero la partecipazione italiana all’oligopolio internazionale in tutti i settori industriali.
Per invertire la rotta è necessario un intervento diretto, attivo e cosciente dello Stato, e uno strumento possibile sarebbe l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti. La questione della ricerca è fondamentale e lì bisognerebbe dissipare un equivoco. Si dice: “Noi siamo forti nella ricerca di base e siamo forti nell’industria, ma non siamo bravi a fare i ponti tra l’una e l’altra”. I dati però dicono che rispetto agli Stati Uniti siamo relativamente deboli sia sul fronte della ricerca che su quello dell’industria, soprattutto nelle nuove tecnologie. Per questo dobbiamo innanzitutto rafforzare le due sponde prima di metterci a “fare i ponti” tra di esse. Invece la filosofia della Commissione europea è quella di fare l’ammucchiata tra scienziati e imprese.
Ma come le finanziamo le mission e più in generale le politiche industriali? In parte razionalizzando l’uso delle risorse: l’unica mission che finanziamo al momento è l’acquisto dei caccia americani F-35, un fallimento tecnologico e militare che lo stesso Pentagono non vuole, ma per il quale continuiamo a trasferire fondi agli Usa senza nessuna ricaduta tecnologica per noi. Dunque, se proprio vogliamo costruire cacciabombardieri invece che asili, che almeno si privilegi l’Eurofighter europeo. Ma le razionalizzazioni non bastano; bisogna anche essere pronti a fare spesa in deficit. Il feticcio del 3% nel rapporto deficit-Pil è una follia.
Si dice: per favorire gli investimenti privati bisogna fare le cosiddette “riforme strutturali”. Bisogna allora farsi una domanda: la mancanza di investimenti dipende: a) dai costi troppo alti; b) da bassi profitti o alte tasse; c) dalla mancanza di domanda? La risposta è la terza: la mancanza di domanda. Nella mia intera esperienza di economista non ho mai incontrato un imprenditore che dica: “Io faccio dei calcoli al margine e investo o non investo a seconda del costo marginale del lavoro”. Neanche uno. Per quanto riguarda il profitto e le tasse, non c’è nessuna evidenza che ci sia una relazione tra profitti e investimenti. Statisticamente le imprese che fanno più profitti non crescono di più; questo vuole dire che non è vero che tassando i profitti riduci gli investimenti.
Quando parlo di queste cose negli Stati Uniti mi diverto a sconvolgere la platea ricordandogli che hanno avuto un presidente “comunista”: il generale Dwight Eisenhower, repubblicano, che negli anni cinquanta, il periodo di maggiore crescita di tutta la storia degli Stati Uniti, ha imposto la tassazione marginale sui redditi dei più ricchi al 92% e quella sui profitti al 60%. Basterebbe tornare oggi alle sue politiche.
Giovanni Dosi è Direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. L’articolo si basa sulla relazione a un seminario della Fiom.
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