Il decreto del governo sull’Ilva protegge il gruppo Riva, colpisce la magistratura, non indica una strada convincente per tutelare il lavoro e l’ambiente a Taranto
Il recente decreto legge del governo sull’Ilva è inadeguato alla gravità della crisi di Taranto. Da una parte assicura – forse – continuità alla produzione e pone le premesse, almeno per il momento, per la continuità occupazionale e di mercato dell’azienda, a Taranto come a Genova, un sito legato strettamente alle sorti del grande stabilimento meridionale. Dall’altra cancella all’istante le decisioni della giustizia, colpendo alla base il sistema giuridico del paese e crendo un pericoloso precedente. Come ha sottolineato Gustavo Zagrebelsky sul quotidiano La Stampa, si minano alle fondamenta sia il codice di procedura penale che quello penale. Il decreto esclude ogni possibile intervento della magistratura anche nel caso in cui l’azienda si sottragga agli obblighi stabiliti dall’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). O, come ci ricorda Giovanni Negri su Il Sole 24 Ore, citando le dichiarazioni del professor Giulio Enea Vigevani, si tratta di un decreto con molte falle sul piano giuridico. L’intervento è dichiaratamente preso, secondo i due autori, per bloccare gli effetti di una pronuncia della magistratura, il che – in un ordinamento giuridico che ha alla base la separazione tra i poteri dello stato – presenta forti elementi di criticità. Si configura una sorta di “diritto speciale” per l’Ilva.
Potrebbe ora verificarsi, da parte dei magistrati di Taranto, una chiamata in causa della Corte costituzionale su più di una questione, nonché vari legittimi tentativi di intralciare la decisione del governo.
Inoltre, il decreto legge lascia nelle mani dei proprietari – di cui due agli arresti domiciliari e uno latitante e che sino a ieri hanno avuto sulla vicenda un comportamento molto lontano dall’essere esemplare – le decisioni in merito alla gestione dell’azienda, anche se le azioni del gruppo proprietario dovessero essere sorvegliate strettamente, come promette il decreto legge; in effetti, come si vede dai documenti dell’inchiesta giudiziaria, ci sono quattro atti di intesa sottoscritti a suo tempo dal gruppo Riva tra il 2003 e il 2006 e che non sono stati che molto marginalmente rispettati, facendo poi credere al mondo il contrario.
L’Italia sembra davvero un paese in cui tutto è possibile, specialmente se ci si ricorda che i principali protagonisti della vicenda da parte governativa sono i ministri Clini e Passera. Il primo, in passato, da direttore generale del ministero dell’ambiente, aveva avallato per quanto di sua competenza tutte le disastrose decisioni ambientali relative al gruppo; ora non passa quasi giorno senza che il ministro dell’ambiente attacchi più o meno violentemente la magistratura. Il secondo, da banchiere al vertice di Banca Intesa, aveva dato un rilevante supporto finanziario al gruppo Riva e aveva promosso in prima persona l’operazione Alitalia, voluta dall’allora primo ministro Silvio Berlusconi, operazione che aveva visto la partecipazione entusiasta della famiglia Riva; c’è da chiedersi se il governo non abbia ricambiato la cortesia con qualche “aiutino” sul fronte di Taranto.
Come già argomentato nel nostro articolo “Che cosa si potrebbe fare all’Ilva di Taranto” (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Che-cosa-si-potrebbe-fare-all-Ilva-di-Taranto-15395), un problema molto grave riguarda gli aspetti imprenditoriali e finanziari, su cui il decreto del governo non fornisce passi avanti. Non conosciamo il piano operativo di intervento sullo stabilimento, né nelle sue scadenze, né nelle sue coperture finanziarie. Il gruppo Riva non sembra possedere, neanche in prospettiva - almeno per quanto risulta da un’attenta analisi dei suoi bilanci e dalle tendenze di sviluppo del mercato - le risorse necessarie per portare avanti il programma indicato nell’AIA; ha ancora meno possibilità di avere le risorse necessarie per stare con successo sul mercato. Per trovare un po’ di risorse finanziarie, le autorità dovrebbero andare a pescare in giro per il mondo quelle eventualmente trasferite dal gruppo Riva in società straniere di comodo, impresa peraltro improbabile
Per quanto riguarda il programma di interventi indicato nell’AIA, com’è noto, servirebbero all’incirca 3,5-4 miliardi di euro in pochi anni. Per produrre acciaio con efficienza, la compagine imprenditoriale che controlla la società dovrebbe imparare a operare in un mercato le cui caratteristiche sono molto cambiate nell’ultimo periodo. I processi di globalizzazione, la crisi in atto, l’andamento fuori controllo dei prezzi delle materie prime e il freno posto ai prezzi di vendita dall’accresciuta concorrenza, stanno mettendo in grandi difficoltà un gruppo che è troppo concentrato sull’Italia; il fatturato viene per due terzi dal nostro paese, il resto va sui mercati europei; la Riva è del tutto assente dagli altri mercati mondiali. Il gruppo registra una progressiva erosione delle quote di mercato in Italia e vede peggiorare i suoi risultati economici complessivi.
Tutte queste debolezze suggeriscono che sarebbe necessario un salto di qualità nelle strategie, accompagnato dalla disponibilità di grandi risorse organizzative e finanziarie da mettere in campo. Risanare l’ambiente, ammesso che lo si faccia, non significa tornare ai lauti guadagni di prima della crisi. Per le imprese dell’acciaio è ormai necessaria una dimensione internazionale; molte grandi imprese puntano all’integrazione a monte della siderurgia, con l’ingresso nel business delle miniere, per cercare una stabilizzazione dei prezzi delle materie prime.
Riorganizzare la proprietà delle acciaierie di Taranto ci sembra una scelta obbligata. Da un lato, sul piano tecnologico e produttivo, potrebbe essere necessario inserire nella compagine azionaria qualche altro grande gruppo che operi a livello globale e che aiuti l’azienda anche sul fronte dei necessari processi di integrazione verticale. La questione non è risolvibile a livello solo nazionale, dove mancano i soggetti in grado di contribuire al superamento dei problemi del gruppo. Partner possibili possono essere i principali gruppi asiatici o latino-americani: la cinese Baostel, la coreana Posco, o la brasiliana Vale, che porterebbe gli ormai preziosi minerali; c’è anche l’indiana Arcelor Mittal, che tuttavia sta provocando una grave crisi sociale e occupazionale negli stabilimenti di cui è proprietaria in Francia.
Dal lato finanziario, per bilanciare il ruolo di una multinazionale straniera, la compagine italiana potrebbe essere rafforzata dall’intervento della Cassa Depositi e Prestiti. Non basta, tuttavia, una quota pubblica della proprietà dell’Ilva per cambiare il modello di gestione e risanare l’ambiente; nuove forme di coinvolgimento vanno trovate per dare voce e tutela agli interessi di cittadini e lavoratori, ricostruendo il tessuto economico locale e la vivibilità di Taranto.
Per il gruppo Riva – come si auspica ormai da diverse parti – si tratta ormai di analizzare la fattibilità di un possibile esproprio dell’Ilva, ponendo il gruppo, almeno temporaneamente, sotto la proprietà dello stato. L’obiettivo è rimettere in marcia l’Ilva e risolvere i problemi ambientali, con un percorso indubbiamente difficile, ma sostanzialmente obbligato. Senza di questo, nulla salus per un gruppo che si colloca ormai soltanto al ventitreesimo posto nella classifica mondiale del settore.
E non c’è solo l’Ilva. I giornali riportano che ci sono in Italia diciotto casi di grandi imprese industriali con rilevanti problemi di inquinamento. Dobbiamo aspettare che la magistratura intervenga con durezza anche in questi diciotto casi perché poi il governo si svegli, magari per bloccare le eventuali iniziative della stessa magistratura, o dobbiamo invece affrontare la questione di una nuova presenza del pubblico nell’economia, in forme adeguate alla complessità dei problemi?
Uno studio sull’Ilva di Riccardo Colombo e Vincenzo Comito, realizzato da Sbilanciamoci! per la Fiom nazionale sarà pubblicato a inizio 2013 dalle Edizioni dell’Asino.
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