Il piano dell’Ilva per ristrutturare e tutelare l’ambiente non è credibile, apre la cassa integrazione e prepara il tramonto dell’impianto di Taranto
Il 19 febbraio 2013 Ilva ha presentato un piano operativo per lo stabilimento di Taranto ritenendo così di ottemperare a quanto richiesto dal documento AIA 2012. Nello stesso tempo l’azienda ha richiesto la cassa integrazione per 6.500 operai, giustificandola appunto con le fermate lavoro rese necessarie dalla ristrutturazione.
L’analisi del piano dimostra come l’azienda non intenda affrontare il risanamento di Taranto ma anzi usi l’emergenza ambientale per portare avanti strategie di sganciamento dall’area tarantina.
Il documento dell’azienda non fornisce cifre, ma indica le principali aree di intervento e i tempi di realizzazione. Il programma si dovrebbe sviluppare nell’arco del 2013 e 2014 e prevede la fermata e il conseguente rifacimento delle batterie di cokeria, la copertura del parco minerali, interventi sull’impianto di agglomerazione e sui convertitori. Per quanto riguarda gli altiforni, resterebbe in pieno funzionamento l’impianto 4, verrebbero invece fermate l’unità 1, da gennaio 2013 a luglio 2014, l’unità 5, che verrebbe chiusa da agosto a dicembre 2015, e l’unità 2 per tutto il 2013. È evidente come l’Ilva cerchi di sincronizzare le operazioni di rifacimento delle batterie della cokeria con gli interventi sugli altiforni.
La cokeria è una delle principali fonti di inquinamento. L’azienda ha escluso la possibilità di spostare questa unità produttiva in modo da collocarla più lontano dalle aree abitate. Ha, inoltre, deciso di rifare le batterie, anche le più critiche, come le 3, 4, 5, 6, (che erano state spente e riaccese a freddo), senza prendere in considerazione la possibilità di chiuderle definitivamente e di costruirne delle nuove, con tecnologie più moderne e quindi a più basse emissioni.
Il dubbio che la soluzione del semplice rifacimento delle batterie sia insufficiente sotto il profilo ambientale deve essere venuto anche all’Ilva. L’azienda ha infatti prospettato l’adozione della tecnologia denominata “Coke Dry Quenching”, in sostituzione dell’attuale “Wet Dry Quenching”. Messa a punto negli anni ’60 nell’allora Unione Sovietica, il raffreddamento a secco rispetto a quello ad acqua è una tecnologia largamente diffusa in Giappone e in Corea (è adottata rispettivamente da circa il 90% e il 70% degli impianti di questi due paesi) ed è in rapida espansione in Cina, dove sembra sia presente in almeno il 30% degli stabilimenti.
Questa tecnologia abbatte drasticamente i consumi energetici, permette un recupero dei vapori di risulta (rendendo possibile la cogenerazione e il teleriscaldamento), riduce le emissioni, sia di CO2 che di altre sostanze, e migliora la qualità del prodotto di coke. È poco utilizzata nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, in quanto l’investimento necessario è venti volte superiore rispetto alla spesa richiesta dalla “Wet Dry Quenching”. Inoltre, per le caratteristiche del coke prodotto, aumentano notevolmente le emissioni inquinanti nella movimentazione del prodotto da cokeria agli altiforni.
Un eventuale utilizzo della “Coke Dry Quenching” richiede una revisione complessiva della logistica di stabilimento e non è serio evocarla senza un progetto complessivo del layout e in particolare dei sistemi di movimentazione. Come si può pensare di adottare questa tecnologia prevedendo un semplice rifacimento delle batterie di cokeria, peraltro vetuste (hanno almeno 30 anni di vita)? E poi, per quali motivi l’azienda non ha fatto già ricorso alla Coke Dry Quenching? Non è vero, quindi, che lo stabilimento di Taranto doveva e deve per forza inquinare? Si confermano, implicitamente, le gravi responsabilità della proprietà e la mancanza di una reale politica di investimenti rivolta non solo alla salvaguardia ambientale ma anche alla ricerca della competitività.
L’autorità giudiziaria ha più volte chiesto un intervento immediato sull’altoforno 5, ritenendolo una fonte importante di inquinamento. Ebbene l’azienda ha deciso di fermare l’altoforno 2 (rifatto nel 2007!) e di rifare il 5 solo nella seconda metà del 2014. Per dispetto verso la magistratura? Probabilmente perché l’azienda continua ad anteporre le esigenze produttive all’ambiente. Infatti, Ilva intende mantenere una capacità produttiva di 6,3 milioni di tonnellate all’anno e ritiene che ciò sia possibile solo tenendo in funzionamento contemporaneamente gli altiforni 4 e 5, che hanno ciascuno una capacità produttiva nell’ordine dei 3-4 milioni all’anno. Ma perché non approfittare della crisi attuale, che vede una forte caduta della domanda di acciaio, per rifare l’altoforno 5 e prepararsi meglio all’auspicata ripresa del 2014 e 2015? Siamo sicuri che verrà veramente fermato l’altoforno 5 nel 2014? Siamo sicuri che l’azienda si muova in un orizzonte che vada oltre al 2014?
Un’analisi, anche sommaria, del piano Ilva non può non evidenziarne l’inconsistenza. L’azienda continua a “galleggiare” in una prospettiva di breve termine, mirando a prendere tempo. Questo giudizio è confermato anche dagli stanziamenti previsti. Questa informazione la dobbiamo ricavare da La Repubblica del 19 febbraio 2013, in quanto l’azienda non si è preoccupata di corredare il programma temporale con i valori previsti di investimento. Apprendiamo, in questo modo, che lo stanziamento previsto è di 2,2 miliardi di euro, ben al di sotto delle stime di esperti che indicano in oltre 3,5 miliardi di euro la cifra minima per un adeguato intervento di risanamento. Se poi togliamo dalla somma prevista dall’azienda 500 milioni di spesa per l’adozione della “Coke Dry Quenching”, sulla cui effettiva realizzazione si possono legittimamente esprimere dei dubbi, risulta che lo stanziamento è di 1,5 miliardi in due anni: 750 milioni in un anno, poco più del valore degli ammortamenti del Gruppo nel 2011 (584 milioni di euro). Senza dubbio un bello sforzo per il risanamento di uno stabilimento delle dimensioni e dei problemi ambientali di Taranto!
Ma siamo sicuri che l’Ilva voglia, o possa, effettuare un congruo investimento sullo stabilimento? L’analisi del piano fa pensare che l’azienda intenda prendere tempo e abbia già in mente uno sganciamento. Questo sospetto viene confermato dalla distribuzione della cassa integrazione nei diversi reparti dello stabilimento. Essa infatti riguarda principalmente gli addetti dell’area a freddo, non interessata dalla ristrutturazione, anche se quest’ultima viene richiamata per giustificare la sospensione dal lavoro di 6.500 persone. Al di là del cinico uso dell’ambiente per farsi riconoscere un aiuto a ridurre i costi a fronte di una caduta dei volumi di vendita, sembrerebbe che Ilva voglia concentrare la produzione dell’area a freddo negli altri stabilimenti del Gruppo e gestire l’area a caldo in modo opportunistico, aspettando di vedere cosa succede: tutto ciò a danno dell’ambiente e della sopravvivenza del sito tarantino.
È necessaria un’operazione verità, che sveli la reale posizione della proprietà, e del governo ancora in carica, e spinga a prendere al più presto i necessari provvedimenti. Ricordiamoci che l’articolo 4 del decreto legge del 3 dicembre 2012 prevede che il garante possa assumere “provvedimenti di amministrazione straordinaria” a fronte di inadempienze dell’azienda. Sarebbe, però, necessario che il garante “non dormisse sonni tranquilli” e svolgesse fino in fondo le sue funzioni di vigilanza.
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