L'idea dello ius culturae – lanciata dal ministro Riccardi – è ambigua e pericolosa, perché rischia paradossalmente di alimentare il conflitto multiculturale
Alcuni giorni fa Andrea Olivero ha riproposto sulle pagine di Europa l’idea dello ius culturae quale criterio di definizione di un’auspicabile riforma della cittadinanza italiana. Lanciata dal ministro Andrea Riccardi, la nozione di ius culturae sembra essere diventata l’asse consensuale per praticare una via italiana all’integrazione.
Di cosa si tratta? A volere ragionare in termini generali, il concetto richiama agli effetti propositivi e “assimilazionistici“ di una “seducente” cultura italiana. Si immette nel discorso pubblico una concezione stato-centrica e “assimilazionistica” di cittadinanza, secondo un’idea di presunzione di appartenenza, in base alla quale la nascita sul territorio veicolerebbe, nel lungo periodo, quei legami culturali che si suppone costituiscano la base della cittadinanza. Come dire, i diritti di cittadinanza sono collocati nell’ambito della specificità culturale di una comunità nazionale, la quale promuove una concezione particolaristica dell’individuo e delle sue relazioni sociali. Seguendo tale prospettiva, l’inclusione si determina attraverso una sorta di “adeguamento” valoriale alla cultura del paese ospitante. A prima vista sembra un discorso molto lineare. Eppure, guardando bene, emerge una serie di ambiguità concettuali su cui sarebbe opportuno riflettere serenamente.
La prima ambiguità riguarda la nozione stessa di cultura nazionale. In base a quali contenuti qualificanti e qualificati si delinea lo spazio culturale nel quale si definisce un’immaginata concezione di appartenenza culturale? Se il ministro Riccardi ha in mente una sorta di Leitkultur (cultura dominante) all’italiana, allora dovrebbe essere molto esplicito e chiarire senza mezzi termini cosa intende. A me sembra che la concezione di ius culturae sia viziata da un eccessivo monoculturalismo che funziona come un dispositivo che fa dipendere la grammatica dei diritti alla rinuncia delle identità culturali nella sfera pubblica.
Su questo terreno si riscontra la seconda ambiguità concettuale dello ius culturae. Perché parlare di modello italiano per l’integrazione e non dire chiaramente che la via da praticare è quella dell’assimilazione. Perché parlare d’integrazione che rimanda più specificatamente all’inclusione nel tessuto economico-sociale, al riconoscimento delle differenze culturali, alla valorizzazione e accettazione del pluralismo culturale, quando, alla fine, si guarda esclusivamente alla cittadinanza come processo di adeguamento valoriale alla cultura dominante, qualunque poi sia il significato ascritto a quest’ultima.
La classe politica e la tecnocrazia di governo non dovrebbero limitarsi a costruire neologismi astratti, ma dovrebbero prendere sul serio l’ipotesi che tanto l’opinione pubblica nazionale quanto le comunità di stranieri residenti hanno il diritto di capire nel concreto di cosa si discute. Si tratta di comunicare sul piano fattuale quello che si pensa fare, evitando, così, inutili incomprensioni. Anzi, l’idea stessa dello ius culturae paradossalmente rischia di alimentare il conflitto multiculturale perché, piuttosto che ricercare regole e pratiche di coesistenza tra le diverse culture, tende a legare l’uguaglianza delle opportunità di partecipazione alla cultura dominante del paese ospitante. Mettere in moto forme e processi di negoziazione sull’identità culturale è una questione molto complessa.
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