Dietro la politica espansiva e la crescita dell'occupazione si nascondono dati non positivi. La notizia è di quelle che, soprattutto vista da un paese come il nostro che non cresce da vent’anni, sorprendono positivamente. Risulta dunque che nel terzo trimestre del 2014 il Pil statunitense è aumentato del 5,0% su base annua.
Peraltro la notizia va inserita in un quadro temporale più vasto; così per l’intero 2014 l’economia crescerà “solo” intorno al 2,5% (tra l’altro, nel primo trimestre c’era stato un andamento del Pil fortemente negativo, mentre esso dovrebbe aumentare del 2,6% nel quarto trimestre) e sempre intorno al 2,5% è la previsione di sviluppo per l’anno prossimo.
Pur ridimensionate, tali cifre appaiono comunque molto migliori di quelle della zona euro, per la quale l’attesa, secondo la Bce, è di un aumento del Pil dello 0,8% per il 2014 e dell’1,2% per il 2015. La celebrata economia tedesca dovrebbe registrare una crescita di poco superiore all’1,0% nel 2014 e intorno all’1,0% nel 2015, per non parlare della strutturale stagnazione italiana.
Come mai queste differenze? Le ragioni sono più d’una. Intanto, per scontare i loro presunti peccati, gli europei si sono autoinflitti una politica di stretta austerità, che sta dando i suoi frutti avvelenati, grazie anche ad una classe dirigente largamente al disotto dei compiti. Invece gli Stati uniti portano avanti una strategia sostanzialmente espansiva sia sul fronte dell’economia reale che di quella monetaria. Il deficit pubblico è stato tenuto per anni ad un livello elevato per spingere la ripresa, mentre la politica monetaria e creditizia è stata molto accomodante.
I consumi e gli investimenti appaiono in aumento anche in relazione al calo dei prezzi dei carburanti (le imprese Usa pagano l’energia un terzo circa dei concorrenti europei), grazie anche al selvaggio sfruttamento dello shale oil; pesa anche il miglioramento delle prospettive del mercato del lavoro, ciò che induce all’ottimismo i consumatori.
Va ancora considerato che una linea di politica economica costante perseguita da vari governi Usa è quella di scaricare i loro problemi sugli altri paesi, o, comunque, di non tenere conto degli interessi neanche dei loro alleati. Così abbiamo a suo tempo registrato come il sistema finanziario statunitense abbia ceduto all’Europa circa la metà dei titoli subprime a suo tempo prodotti, contagiandola, o come oggi l’establishment del paese aggravi la situazione del nostro continente scaricando interamente su di esso le conseguenze delle manovre in Ucraina. E ricordiamo solo di passaggio gli spregiudicati interventi sul dollaro (The dollar is my money and your problem).
Nel quadro della crescita dell’economia appare interessante concentrare l’attenzione sulle dinamiche del lavoro. A prima vista appare persino spettacolare la riduzione dei livelli di disoccupazione. Siamo a fine novembre ad un numero di senza lavoro pari al 5,8%.
Ma dietro l’aumento dell’occupazione si nascondono dei fatti meno positivi. Intanto non sono presi in conto gli occupati a tempo parziale che vorrebbero invece lavorare a tempo pieno e poi le persone scoraggiate che non cercano più lavoro perché disperano di trovarlo. A questo bisogna aggiungere il fatto che negli Usa ci sono circa 7 milioni di persone in galera o con qualche restrizione alla libertà di movimento e che non possono quindi lavorare.
C’è poi una tendenza di fondo all’aumento dei posti di lavoro nelle fasce molto basse del mercato ed in quelle molto alte, mentre si riducono quelli di livello medio; così tra il 2007 e il 2012 il numero dei manager del comparto industriale è aumentato di 387.000 unità, mentre quello degli impiegati è diminuito di circa 2 milioni.
La tendenza alla scomparsa della classe media appare particolarmente avanzata nel paese, grazie in particolare ai frutti non governati dei processi di automazione.
Ricordiamo, parallelamente, la crescita nelle disuguaglianze di ricchezza e di reddito, già elevate prima della crisi.
Per altro verso, al forte aumento degli occupati solo da pochi mesi corrisponde anche quello dei salari, che continuano ad essere molto più bassi di quelli tedeschi e che comunque aumentano pochissimo più dell’inflazione. Ricordiamo inoltre che oggi nel paese 400 persone da sole posseggono una ricchezza totale maggiore di quella dei 180 milioni di cittadini più poveri. I frutti della ripresa vanno così in maniera sproporzionata ad una ristretta cerchia di persone.
Il governo non appare in grado né di avviare delle politiche economiche in grado di combattere almeno in parte il fenomeno delle diseguaglianze e di gestire i processi di automazione, né di tenere testa a Wall Street, che sta rialzando prepotentemente la testa dopo la crisi, con gravi rischi per il paese. Così il futuro non appare brillante come può sembrare a prima vista. Del resto il 2014 sarà ricordato come l’anno in cui il Pil cinese avrà superato quello statunitense.
Articolo apparso su il manifesto del 27.12.2014
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