La speculazione che investe l’Europa è un “gioco”, politico e ideologico. Servono giocatori all’altezza, per riformare la governance europea, partendo dalla Bce
Il vertice europeo dell’8 dicembre si è concluso massimizzando la propria futilità, prigioniero dei fantasmi della Signora Merkel e delle lobbies che la tengono in ostaggio, nonché delle indecisioni compromissorie del Signor Sarkozy, che pure avrebbe consiglieri dalle idee più chiare. È un peccato, perché finalmente si parlava di un mutamento di quadro che lambiva il testo dei Trattati, dove in effetti risiedono i nodi che impediscono stabilità, difesa dalla speculazione e ripresa della crescita.
Distinguere l’urgenza dalla governance a regime
La confusione deriva dall’incapacità di distinguere tra problemi che occorre risolvere urgentemente e che derivano dalle regole e dai fatti passati, e problemi che riguardano invece i comportamenti futuri. I primi riguardano la difesa dagli attacchi speculativi, i secondi quale configurazione dare alla governance europea del futuro, per fare dell’Eurozona un polo competitivo mondiale, che si sviluppi e non tema nuovi attacchi speculativi. Il nodo che i due ordini di problemi hanno in comune è quello della configurazione da dare ai meccanismi di creazione di moneta e al governo della parte reale dell’economia, nonché alle relazioni tra tali sfere, oggi vincolate dall’Art.101 del Trattato. Che impedisce alla Bce di partecipare, come avviene nel resto del mondo, alle aste per la collocazione di titoli del debito pubblico, oggi degli Stati membri, domani – si spera – di un bilancio federale europeo.
In pratica, per il futuro, si tratta di eliminare le anomalie dell’assetto di governo dell’area. È anomalo che ad una moneta unica non corrisponda un governo e un bilancio federale. È anomalo che la Banca centrale non dialoghi e cooperi con un governo di pari legittimazione. È anomalo che essa finanzi a bassi tassi di interesse le banche ordinarie per far acquistare loro i titoli dei debiti sovrani pregressi, alterando il ruolo e il senso del rischio delle banche. È anomalo che gli Stati che condividono la stessa moneta continuino ad avere deficit positivi. Ma è altrettanto anomalo che non esista un bilancio federale che possa fare, all’occorrenza e a fini di sviluppo, i deficit che ritiene opportuni.
Per il passato e per il presente si tratta invece di riconoscere che i debiti sovrani sono il risultato di modi di creare e usare risorse nel passato, i cui residui meramente distributivi, pur importanti, non dovrebbero influenzare l’uso e la creazione di risorse presenti e future. Si tratta, ancora, di prendere atto che, da un punto di vista reale e ove non dovessero rinnovare i prestiti a tassi resi abnormi dalla speculazione, paesi come l’Italia e la Spagna sono in grado di trasferire ai creditori esteri flussi di merci e servizi dell’ordine del 2-3% del loro Pil (quanto serve per pagare gli interessi in termini reali ai creditori esteri), mentre il debito della Grecia è un problema solo in relazione al suo Pil ma certo non per un’ Europa solidale.
Ma si tratta soprattutto, e con urgenza, di far cessare quella commedia degli equivoci in base alla quale si interpretano gli effetti (in fondo, come dirò, banali) della speculazione come la manifestazione di ciò che il mercato, considerato lucido e razionale quasi fosse un dio, vuole. A considerarlo razionale e lucido, in realtà, sono solo le tecnocrazie internazionali, che usano questo feticcio per imporre, quasi fossero redivivi crociati, la loro fede mai scalfita dal dubbio e comunque resa non vulnerabile alle responsabilità politiche. Gli eventi finanziari che stanno scuotendo l’Europa sono il risultato di un gioco (e basta), i cui esiti sono quelli che sono solo per l’assenza di giocatori all’altezza, come argomenterò.
L’unica costante, in questa stagione di confusione mentale, è lo scempio dei principi di sovranità. Mi pare ieri quando, pochi mesi fa, lamentavo lo scarso scandalo che aveva suscitato la lettera del Presidente della Bce sugli impegni cui si legava il governo italiano (con controfirma – tanto per iper-marcare il territorio – del Governatore della Banca d’Italia), denunciando al contempo il rischio che le politiche nazionali fossero eterodirette dalle tecnocrazie. Oggi la sindrome che denunciavo si è palesemente aggravata.
Le urgenze: la vulnerabilità alla speculazione
Il pericolo maggiore e più immediato per l’Europa è la sua vulnerabilità alla speculazione. Tale vulnerabilità sta nella possibilità di fallimenti a catena sia degli Stati che delle banche. Gli attacchi speculativi hanno origine in iniziative di soggetti specializzati e dedicati, ma il loro successo dipende dal fatto che i detentori non specializzati sono indotti a vendere i titoli sotto attacco, moltiplicando, a seguito di una aumento del rischio percepito, gli effetti delle iniziative al ribasso. I soggetti specializzati non hanno in linea generale alcun interesse nei fallimenti, ma solo nei movimenti di valore, sui quali essi guadagnano; essi non sono tuttavia in grado di evitare l’evenienza di fallimenti né hanno motivazioni e mezzi per farlo. I detentori non specializzati (in gran parte riconducibili a soggetti che impiegano risparmi) potenziano non intenzionalmente i segnali attivati dagli speculatori, divenendo per questi ultimi il moltiplicatore che assicura loro il successo, per il fatto che ciascuno di essi tende – e con buone motivazioni- a disfarsi dei titoli sotto attacco, senza che sia possibile che si stabilisca un coordinamento difensivo. Questo e nulla più.
E invece molti economisti, quelli accademici che non hanno saputo prevedere la crisi e soprattutto quelli delle tecnocrazie che la crisi hanno in gran parte indotto, rappresentano questi eventi finanziari – che altro non sono che gli esiti di giochi strategici che purtroppo finiscono per coinvolgere chi non vorrebbe giocare - come qualcosa di diverso. Essi infatti spacciano l’idea che si tratti di manifestazioni di un mercato razionale. In realtà essi attribuiscono al mercato le loro stesse teorie, suggerendo agli Stati il loro punto di vista e soprattutto le loro terapie che, come avveniva per i medici medievali mai scalfiti da dubbi diagnostici, non vengono a loro avviso mai praticate con l’intensità necessaria a salvare il malato.
Indipendenza dei giochi finanziari, economie reali e gli evitabili pericoli di contagio
Il gioco speculativo non avrebbe di per sé alcun significato per quanto riguarda l’economia reale, cioè per i beni e i servizi che vengono prodotti nelle nostre economie. L’economia reale tuttavia può risentire, e molto, delle vicende finanziarie, per gli effetti depressivi che esse hanno sulle aspettative, gli atteggiamenti verso l’investimento e il rischio, la disponibilità e l’uso del credito, ecc. e, soprattutto, perché inducono gli Stati a praticare le terapie recessive suggerite loro dalle tecnocrazie.
Non ha senso, quanto meno a breve termine, tentare di uccidere i giocatori. Non si farebbe in tempo. Per ora, come in “War Games”, ha senso solo giocare, sulla stessa arena degli speculatori, ma usando strategie vincenti. In questo tipo di gioco vince con certezza chi ha mezzi illimitati, come hanno dimostrato varie esperienze, da quella lontana di Hong Kong a quella più recente di Obama.
Ciò ha un solo significato: occorre l’intervento della Bce, che deve quindi divenire prestatore di ultima istanza non solo rispetto alle banche ma anche nei confronti dei (soli) debiti sovrani pregressi, intervenendo direttamente nelle aste per i rinnovi dei titoli in scadenza (i rischi di fallimento a catena sono gli stessi). Ogni altra strategia, compresa quella di eurobonds o fondi salva-stati vari, essendo le relative disponibilità limitate, è probabilmente destinata ad essere perdente, pur potendo avere qualche effetto transitorio a breve termine.
La trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza sarebbe indolore. Il semplice annuncio restringerebbe la portata degli attacchi speculativi; l’effettiva creazione di moneta, dopo un intervento iniziale che dovrebbe essere deciso, sarebbe limitata. I detentori non specializzati, una volta rassicurati, conserverebbero i loro titoli e non avrebbero motivazione a trasformarli in consumi. I rischi di inflazione dei flussi produttivi sarebbero dunque minimi (l’assenza di spinte inflazionistiche a seguito degli interventi della Bce in salvataggio delle banche nel 2008 corrobora questa asserzione). Limitando tale ruolo ai debiti pregressi degli Stati membri, e prevedendo per il futuro per essi – ma non ber il bilancio federale – un obbligo di pareggio (come dirò), il problema del moral hazard verrebbe tagliato alla radice. (È comunque stravagante che il pericolo di moral hazard venga fatto valere da chi non ha esitato, giustamente, a salvare le banche too big to fail).
Tanto per essere chiari questo significa abrogare l’Art. 101 del Trattato, ciò che, tecnicamente, potrebbe essere fatto con relativa rapidità, una volta capita a fondo la posta in gioco. Nel frattempo, il trucco di cui si è parlato nelle ultime settimane – quello di far sottoscrivere i titoli con fondi forniti dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) coprendo quest’ultimo con prestiti e garanzie operati dalla Bce –, potrebbe servire allo scopo alla sola condizione che la mossa sia dichiarata, decisa, coesa e senza tentennamenti politici. Questo e – temo – solo questo potrebbe fugare i pericoli.
L’economia reale e l’assetto della governance europea
Ma i Trattati vanno riformati anche per quanto riguarda la condotta delle economie europee nel lungo periodo, una condotta che si sta rivelando fallimentare in termini di sviluppo e coesione. In merito la coppia Merkozy sembra pensare solo all’imposizione di sanzioni automatiche per i deficit, alla costituzionalizzazione dei pareggi di bilancio (non ostante i rischi connessi siano stati ben visibili negli Usa), a rafforzare l’attuale autonomia della Bce (non ostante le sue responsabilità nell’alimentazione della bolla speculativa fino al 2007 e nell’aumento dei rischi bancari).
Verrebbero così, ancora una volta, trascurate le più vistose e assurde anomalie dell’Eurozona: (1) l’assenza di un vero bilancio federale in presenza di una moneta unica e il mancato collegamento tra tale bilancio federale e la Bce, (2) un meccanismo del tutto anomalo, nelle mani della Bce, per la creazione di moneta, in base al quale attualmente la Bce fornisce moneta a basso tasso di interesse al sistema bancario affinché questo sottoscriva le emissioni di titoli degli Stati membri. Queste ingegnerie davvero barocche, oltre che anomale su scala mondiale, testimoniano non solo la fantasia luciferina dei loro inventori ma la totale assenza, al momento della loro invenzione, di una reale intenzione di realizzare qualcosa di simile a una Europa confederale.
Se si decidesse di costruire un bilancio federale il quadro cambierebbe radicalmente. In un tale quadro, da realizzare con gradualità ma rapidamente, avrebbe senso prescrivere il pareggio (non un tetto del 3%) per i deficit degli Stati membri, prendendo atto che, in un’area monetaria unica, gli Stati membri hanno la natura di enti territoriali – come gli Stati confederali negli Usa. E, come negli Usa, il bilancio federale, in parte finanziato trasferendo a esso una parte dei gettiti fiscali degli Stati membri (a cominciare dall’Iva e magari in crescendo), dovrebbe poter fare all’occorrenza deficit, finanziati anche dalla Bce sia creando direttamente moneta sia partecipando alle aste di emissione dei titoli (come la Fed), modificando l’attuale assurdo sistema di creazione di moneta.
I deficit federali dovrebbero essere inizialmente riservati al finanziamento di programmi di sviluppo e innovazione europei o, se realizzati dagli Stati membri, al trasferimento di fondi a questi ultimi per la realizzazione di programmi industriali, valutati in sede federale e orientati alla crescita delle dinamiche di produttività e possibilmente alla loro convergenza.
I problemi dunque, lungi dall’essere economici, sono politici e ideologici.
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