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Movimenti e democrazia. Le piazze dell'Unione

04/08/2011

La protesta degli indignados, fortissima in Spagna, ma diffusa tra tutti i giovani d'Europa, apre un discorso sulla democrazia che è preliminare a ogni possibile soluzione della crisi sociale ed economica

Non c’è dubbio che la crisi in Europa è crisi di democrazia, oltre che, o anche prima ancora che, crisi finanziaria. Il neoliberismo è stato ed è, infatti, una dottrina politica che comporta –come bene ha mostrato Colin Crouch nel suo Post-Democrazie – una visione minimalista del pubblico e della democrazia. Vi è non solo la riduzione dell’intervento riequilibrante della politica sul mercato (con conseguente liberalizzazione, privatizzazioni e deregulation) ma anche una concezione elitaria della partecipazione (solo elettorale, e dunque occasionale e potenzialmente distorta) dei cittadini e una crescita invece degli spazi di influenza per le lobby e gli interessi forti. L’evidente crisi di una concezione e pratica liberale di democrazia si accompagna comunque al (ri)emergere di diverse concezioni e pratiche di democrazia, elaborate e praticate – tra l’altro – dai movimenti che oggi in Europa si sono opposti a una soluzione neoliberista della crisi finanziaria, accusata di deprimere ulteriormente i consumi e di allontanare quindi ogni prospettiva di sviluppo (sostenibile o meno).

Come è noto (per alcuni casi più che per altri), le misure di austerity in Islanda, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna sono state accompagnate da proteste, durevoli e di massa. In parte queste proteste hanno preso le forme, più tradizionali, degli scioperi generali e delle manifestazioni sindacali che hanno contestato i drastici tagli ai diritti sociali e del lavoro.

Ma c’è stata anche un’altra protesta – non contrapposta alla prima, ma certamente diversa e più direttamente concentrata sui temi della democrazia: la critica a quella esistente, ma anche l’elaborazione di alternative possibili. “Democracia real ya!” è stato infatti lo slogan centrale delle proteste degli indignados spagnoli, che dal 15 maggio hanno occupato Puerta del Sol a Madrid, Plaça de Catalunya a Barcellona e centinaia di piazze nel resto del paese, chiedendo diverse politiche economiche e sociali, ma anche maggiore partecipazione dei cittadini alla loro formulazione e implementazione. Prima che in Spagna, in Islanda tra la fine del 2008 e l’inizio dell’anno successivo, cittadini auto-convocati avevano chiesto le dimissione del governo e dei suoi delegati nella Banca centrale e nell’autorità sulle questioni finanziarie e in Portogallo, nel marzo del 2011, una manifestazione, convocata via facebook, ha portato oltre duecentomila giovani portoghesi in piazza. Le proteste degli indignados hanno ispirato poi simili mobilitazioni in Grecia, dove l’opposizione alle misure di austerity si era già espresse in forme talvolta violenta.

Accusati da parte della sinistra si essere apolitici e populisti (nonché senza idee) e dalla destra di essere l’ultrasinistra, questi movimenti hanno in realtà posto al centro della loro azione quella che tempo fa (a proposito di altri movimenti) Claus Offe aveva definito come “meta questione” della democrazia.

Il discorso degli indignados sulla democrazia è articolato e complesso, riprendendo alcune principali critiche a una sempre minore qualità delle democrazie rappresentative, ma anche alcune delle principali proposte ispirate da altre qualità democratiche, al di là della rappresentanza, basata sull’accountability elettorale. Queste proposte risuonano con le (più tradizionali) visioni partecipative, ma anche con nuove concezioni deliberative, che sottolineano l’importanza di creare molteplici spazi pubblici, egualitari ma plurali.

Innanzitutto, vi è una critica alle insufficienze – sempre più evidenti – delle democrazie rappresentative, che rispecchia una declinante fiducia nella capacità dei partiti di incanalare domande emergenti nel sistema politico. A partire dall’Islanda, e con forza in Spagna e Portogallo, l’indignazione si indirizza verso una corruzione della classe politica, declinata sia come tangenti (e richiesta di allontanamento dei corrotti dalle istituzioni) vere e proprie, che come privilegi alle lobby e cointeressenze tra istituzioni pubbliche e potere economico (spesso anche finanziario). A questa corruzione – che è corruzione della democrazia –vengono attribuite molte delle responsabilità della crisi economica e della incapacità di gestirla.

Se la centralità della denuncia della corruzione ha fatto storcere il naso a qualcuno a sinistra (che ancora vede l’antipolitica più nella critica alla corruzione che nella corruzione stessa), lo slogan “non ci rappresentano” è comunque legato anche a una critica più profonda delle degenerazioni della democrazia rappresentativa, legata alla rinuncia a far politica da parte dei politici eletti, spesso uniti nel proporre una immagine di assenza di alternative, a cui chi protesta non crede. In Spagna, in particolare, il movimento ha chiesto anche una riforma in senso proporzionale della legge elettorale, denunciando (tema validissimo per l’Italia) la riduzione del peso della partecipazione dei cittadini insita nel sistema maggioritario, dove i principali partiti politici tendono a fare cartello e gli elettori vedono limitata la loro capacità di scelta (per questo, si chiede eguale peso di ciascun voto).

La democrazia rappresentativa viene anche criticata per avere permesso – per usare la metafora proposta da Mario Pianta nel suo intervento in questo dibattito – un ratto di democrazia, non solo da parte dei poteri finanziari, ma anche da parte di organizzazioni internazionali, prima di tutto Fondo monetario internazionale e Unione europea. Patti per l’euro e patti di stabilità, imposti in cambio di prestiti, vengono considerati come ricatti anti-costituzionali, deprivando i cittadini della loro sovranità.

Per ritornare a fare contare i cittadini, vengono tra l’altro proposte riforme in direzione di una democrazia diretta, che dia la possibilità agli elettori di esprimersi sulle principali scelte economiche e sociali. Per questo, vengono chieste maggiori possibilità di utilizzare referendum, con riduzione dei quorum (di firme ed elettori) e aumento delle tematiche sottoponibili alla decisione referendaria.

Ma c’è anche un’altra visione di democrazia, che la teoria normativa ha definito di recente democrazia deliberativa, e che il movimento per una giustizia globale ha elaborato e diffuso attraverso i social forum come democrazia del consenso. Questa concezione di democrazia è prefigurata dagli stessi indignados che occupano le piazze per trasformarle in sfere pubbliche, formate dai “normali cittadini”. È un tentativo di realizzare un’alta qualità di democrazia discorsiva, riconoscendo a tutti (non solo a delegati ed esperti) eguale diritto alla parola (e rispetto) in uno spazio pubblico e plurale, aperto alla discussione e deliberazione su temi che vanno dalle sofferenze vissute alle soluzioni concrete a specifici problemi, dalla elaborazione di proposte sui beni comuni alla formazione di solidarietà collettive e identità emergenti.

Questa prefigurazione di democrazia deliberativa segue una visione profondamente diversa rispetto a quella che legittima la democrazia rappresentativa basata sul principio di decisione maggioritaria. La qualità democratica è qui infatti misurata dalla possibilità di elaborare idee all’interno di arene discorsive egualitarie, aperte e pubbliche, dove i cittadini sono parte attiva nella individuazione dei problemi, ma anche nella elaborazione delle soluzioni possibili. È il contrario di una certa accezione di democrazia del principe, dove il professionista eletto a governare non deve essere disturbato – fino a nuove elezioni, almeno. Ma è anche il contrario della democrazia degli esperti, legittimata dall’output, a cui si sono a lungo appellate le istituzioni europee. Se, soprattutto a partire dal trattato di Maastricht e dall’introduzione dell’euro, questa legittimazione che fa appello alla capacità di produrre, in modo apolitico e a partire da competenze specialiste, successi economici si è via via ridotta, essa sembra crollare ora a fronte dei risultati disastrosi delle politiche europee nella recente crisi finanziaria e al tentativo di imporre soluzioni neoliberiste a cui sembra che i cittadini europei (che, ad esempio in Spagna e Grecia, hanno dato percentuali di consenso fino al 90% agli indignados) credano sempre meno.

English version on Opendemocracy: Movements and democracy

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Democrazia, partecipazione, comunicazione.

Punto cruciale quello affrontato in questo articolo: la democrazia, la partecipazione e la comunicazione.
Come ho scritto nei miei commenti agli articoli della Rossanda, di Mario Pianta e di Stefano Fassina, “c’è la necessità di nuove regole per i mercati finanziari, ma anche di un movimento di popolo, aiutato dai nuovi strumenti della comunicazione (non molto, purtroppo, dai partiti di centrosinistra, troppo chiusi, autoreferenziali e che attuano un tipo di relazione quasi esclusivamente top-down), per contrastare la pretesa di un'infima minoranza di decidere per tutti, e soprattutto un grosso lavoro d’informazione per far fronte al fenomeno che io ho battezzato degli “utili idioti”, cioè i milioni di persone che, analogamente a ciò che, secondo Einstein nella lettera a Freud, avveniva per la guerra, arrivano a sostenere politiche economiche, propugnate da pochi, che vanno a loro danno”.

L’esistenza di Internet, democratizzando le informazioni e velocizzandone la diffusione, muta sostanzialmente le condizioni della fissazione delle regole e dello svolgimento del gioco, a detrimento di quell’infima minoranza di ricchi potenti, egoisti, avidi e spietati che ha sempre dominato in tutte le epoche storiche ed a vantaggio di tutti gli altri, persino in un Paese sonnolento, materno, conservatore e cinico come il nostro. Si tratta di coglierne e sfruttarne appieno e con intelligenza e spirito di concretezza le potenzialità.

Al di là dei suoi difetti e limiti, infatti, Internet ha un potenziale enorme in termini politici, ed anche i partiti politici se ne sono resi conto, ma cercano di limitarne gli effetti a sfavore della nomenclatura, non favorendo ad esempio la nascita, l’equiparazione ed il funzionamento dei circoli on-line (v. PD).
Sia i recenti movimenti libertari nei Paesi arabi, sia quelli rivendicativi in Spagna o in Italia (Indignados; Se non ora quando; Il nostro tempo è adesso) sarebbero stati impensabili, almeno con questa velocità ed estensione, senza il supporto del web. Con un’evidente ricaduta anche in termini politici ed elettorali. Ecco, il problema è che non se ne sfruttano ancora appieno le potenzialità e troppo spesso in tanti blog e forum ci si limita alla chiacchiera infinita senza che una sola volta, non dico si faccia, ma si immagini soltanto, di dare uno sbocco purchessia, con gli stessi mezzi offerti dal web, alle analisi più o meno dotte che vi si possono leggere e che talvolta impegnano indefessamente i loro autori per giorni, settimane e mesi. Occorrerebbe affrontare e risolvere questo problema alla radice, nell’ambito di un’attuazione della norma costituzionale sul funzionamento dei partiti politici.

Democrazia, partecipazione, comunicazione


Punto cruciale quello affrontato in questo articolo: la democrazia, la partecipazione e la comunicazione.
Come ho scritto nei miei commenti agli articoli della Rossanda, di Mario Pianta e di Stefano Fassina, “c’è la necessità di nuove regole per i mercati finanziari, ma anche di un movimento di popolo, aiutato dai nuovi strumenti della comunicazione (non molto, purtroppo, dai partiti di centrosinistra, troppo chiusi, autoreferenziali e che attuano un tipo di relazione quasi esclusivamente top-down), per contrastare la pretesa di un'infima minoranza di decidere per tutti, e soprattutto un grosso lavoro d’informazione per far fronte al fenomeno che io ho battezzato degli “utili idioti”, cioè i milioni di persone che, analogamente a ciò che, secondo Einstein nella lettera a Freud, avveniva per la guerra, arrivano a sostenere politiche economiche, propugnate da pochi, che vanno a loro danno”.

L’esistenza di Internet, democratizzando le informazioni e velocizzandone la diffusione, muta sostanzialmente le condizioni della fissazione delle regole e dello svolgimento del gioco, a detrimento di quell’infima minoranza di ricchi potenti, egoisti, avidi e spietati che ha sempre dominato in tutte le epoche storiche ed a vantaggio di tutti gli altri, persino in un Paese sonnolento, materno, conservatore e cinico come il nostro. Si tratta di coglierne e sfruttarne appieno e con intelligenza e spirito di concretezza le potenzialità.

Al di là dei suoi difetti e limiti, infatti, Internet ha un potenziale enorme in termini politici, ed anche i partiti politici se ne sono resi conto, ma cercano di limitarne gli effetti a sfavore della nomenclatura, non favorendo ad esempio la nascita, l’equiparazione ed il funzionamento dei circoli on-line (v. PD).
Sia i recenti movimenti libertari nei Paesi arabi, sia quelli rivendicativi in Spagna o in Italia (Indignados; Se non ora quando; Il nostro tempo è adesso) sarebbero stati impensabili, almeno con questa velocità ed estensione, senza il supporto del web. Con un’evidente ricaduta anche in termini politici ed elettorali. Ecco, il problema è che non se ne sfruttano ancora appieno le potenzialità e troppo spesso in tanti blog ci si limita alla chiacchiera infinita senza che una sola volta, non dico si faccia, ma si immagini soltanto, di dare uno sbocco purchessia, con gli stessi mezzi offerti dal web, alle analisi più o meno dotte che vi si possono leggere e che talvolta impegnano indefessamente i loro autori per giorni, settimane e mesi. Occorrerebbe affrontare e risolvere questo problema alla radice, nell’ambito di un’attuazione della norma costituzionale sul funzionamento dei partiti politici.

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