L’Europa, che arriva al negoziato con gli Usa divisa, rischia di immolare sull’altare della competitività i propri servizi pubblici. Salute, scuola e acqua rischiano di finire nel tritacarne
Le stupefacenti rivelazioni sullo spionaggio statunitense nelle ambasciate, missioni diplomatiche e istituzioni europee potrebbero ritardare l’avvio del negoziato sul libero scambio Ue-Usa, approvato da parte europea al consiglio dei ministri del commercio del 13 giugno scorso. Viviane Reding, commissaria alla Giustizia, si è dichiarata a favore di un blocco del negoziato, nell’attesa di spiegazioni. “I partner non si spiano a vicenda”, ha affermato. L’eurodeputato verde Daniel Cohn-Bendit sostiene che “ci vuole prima un accordo sulla protezione dei dati dei cittadini e delle istituzioni europee, e fino a che un accordo in questo senso non sarà firmato non ci sarà accordo nel negoziato di libero scambio”. Reazioni indignate in particolare dalla Germania e dalla Francia, due tra i principali bersagli dello spionaggio della Nsa. Invece, colpisce il silenzio del presidente della Commissione, l’ultra-atlantista José Manuel Barroso, che mira ad avere un incarico internazionale alla fine del suo mandato a Bruxelles e punta alla Nato.
Una pausa di riflessione sul trattato di libero scambio può rivelarsi molto utile. La Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) ha l’obiettivo di fondare una “Nato del commercio” tra le due grandi potenze economiche, che concentrano il 40% degli scambi mondiali. Sotto la pressione della Francia, che ha minacciato il veto, è stato tolto dal tavolo dei negoziati il settore culturale, anche se la Commissione ha poi attenuato questa eccezione, con il commissario Karel De Gucht che ha parlato di possibile reinserimento del settore dell’audiovisivo nel corso delle discussioni. Il negoziato dovrebbe dare vita a un mercato interno transatlantico, che attraverso l’abbattimento delle barriere non tariffarie (omologazione delle norme) servirà come arma dell’occidente contro l’emergenza della Cina.
Il Parlamento europeo ha chiesto anch’esso di preservare l’eccezione culturale, ma ha comunque votato a maggioranza a favore dell’apertura della trattativa bilaterale (la sinistra della Gue e i Verdi hanno però votato contro, dei francesi del gruppo S&D si sono astenuti). Malgrado la breve discussione all’europarlamento i cittadini europei sono stati tenuti praticamente all’oscuro su un futuro trattato che, se verrà concluso, è destinato a influire su molti aspetti della vita economica e sociale degli europei, dai diritti del lavoro alla salute, alla scuola, ai beni comuni.
Trionfo della liberalizzazione competitiva
Gli Usa vogliono che tutto venga messo sul tavolo della trattativa. La Commissione, che per i Trattati europei ha il potere di negoziare a nome dei 27, è sulla stessa posizione. “Tutto” significa ogni settore dell’economia suscettibile di creare profitto. Per far fronte alla crisi economica, Usa e Ue hanno scelto la strada del bilateralismo, dopo anni di blocco del Doha Round alla Wto e il conseguente progressivo abbandono del multilateralismo nel commercio internazionale. La Commissione europea preme per rispondere positivamente alla proposta di Obama, affermando che aumentando gli scambi transatlantici ci sarà una spinta alla crescita: Bruxelles è arrivata addirittura a calcolare 545 euro in più l’anno per famiglia europea, grazie a un tasso addizionale di crescita generato dal Ttip tra lo 0,5 e l’1% del pil della Ue e la creazione di almeno un milione di posti di lavoro. L’Europa spera di aumentare l’export in Usa, paese più protezionista (l’80% del mercato europeo è aperto, solo il 30% negli Usa, dove per esempio il 23% degli appalti pubblici sono riservati alle imprese nazionali, protette anche dal “buy american”). Ma già su queste prospettive rosee ci sono forti perplessità. Intanto, l’impatto non sarà eguale in tutti i 27 e con la liberalizzazione si rischia di accentuare le divergenze tra il nord prospero e il sud e la periferia della Ue in crisi. Per l’eurodeputato verde Yannick Jadot, “per uscire dalla crisi ci lanciamo nella liberalizzazione competitiva, che è all’origine della crisi stessa”. Secondo Jadot, “gli scambi sono già molto liberalizzati tra Usa e Ue, i diritti doganali sono in media intorno al 2,5%”, fatta eccezione per l’agricoltura e alcuni prodotti manifatturieri. In gioco, c’è l’armonizzazione delle barriere non tariffarie, cioè delle norme, per evitare che la Cina imponga alla lunga le proprie, al ribasso. “Ciò che continua a fare ostacolo agli scambi – spiega Pierre Defraigne, direttore della Fondazione Madariaga ed ex capo di gabinetto di Pascal Lamy alla Commissione – sono le differenze di legislazione, cioè le norme e gli standard in materia di protezione dell’ambiente, della salute, del consumatore, del diritto d’autore, del risparmio ecc.”. Si toccano qui delle “scelte di società”, cioè i valori costitutivi di un paese. “Americani ed europei mantengono delle preferenze collettive molto in contrasto sull’energia, l’ambiente, il ricorso agli Ogm o agli ormoni, la ricerca sugli esseri viventi, le ineguaglianze sociali, il posto riservato ai servizi pubblici, i prodotti finanziari ad alto rischio, la protezione dei dati privati”, come si sta vedendo in questi giorni con le rivelazioni sul programma Prism, sottolinea Defraigne.
Servizi pubblici e beni comuni nel mirino
Ma la Commissione sostiene che il Ttip permetterebbe di difendersi meglio dall’offensiva cinese. Eppure, è solo di qualche settimana fa lo scacco della Ue sul fotovoltaico cinese: con grande probabilità, le barriere doganali imposte dalla Commissione ai pannelli solari cinesi prodotti in dumping saranno abolite tra sei mesi, a causa dell’ostilità della Germania (che vende alla Cina le macchine per costruire i pannelli). L’esempio del fotovoltaico illustra bene la situazione di un’Europa divisa tra gli interessi nazionali, che va a trattare con gli Usa, che invece fanno blocco decisi a difendere la loro dottrina della liberalizzazione competitiva.
Il Ttip assomiglierà al Nafta, il trattato di libero scambio del Nord America. L’eurodeputato Jadot riporta un esempio che viene dal Quebec e che dovrebbe fare riflettere gli europei: il Québec, stato canadese, ha votato una moratoria sullo shale gas (il gas di argille), in nome della difesa della salute. Ma le industrie Usa del settore hanno portato il Québec di fronte al tribunale arbitrale del Nafta e chiesto i danni per aver perso delle prospettive di guadagno. Il Ttip “darà poteri alle imprese per distruggere le politiche pubbliche – afferma Jadot – già ora gli stati sono deboli di fronte alla multinazionali, ma dopo domineranno ancora di più”.
Un altro argomento portato a favore del Ttip è la prospettiva di un’armonizzazione delle norme verso l’alto, per contrastare la Cina, dove le regole sono al ribasso, e che potrebbe imporre a tutti i suoi standard vista la sua crescente potenza economica. Certo, sarà utile avere un blocco economico forte per imporre a Pechino di non esportare tessuti che si incendiano, giocattoli che perdono i pezzi e che rischiano di soffocare i bambini, prodotti che contengono materiali nocivi etc. Ma il negoziato del Ttip parte al ribasso: per esempio, ricorda Jadot, “la carbon tax non è contemplata, viene presa in considerazione solo la competitività a breve, perché le norme esigenti costano care”.
Gli Usa arrivano al negoziato del Ttip con un esercito di 600-1000 negoziatori, pronti a imporre le loro regole in tutti i settori. La Ue non ha ancora stabilito chi andrà alla trattativa. In altri termini, l’Europa non è pronta, è troppo divisa e per di più è già lanciata in circa 25 negoziati commerciali bilaterali, dal Malawi al Mercosur, in prospettiva c’è l’apertura di una trattativa con la Cina. Rischia di immolare sull’altare della competitività i propri servizi pubblici, che fanno parte della sua identità. Sui servizi pubblici sono esclusi dalla trattativa solo quelli per cui non esiste una proposta privata. La salute, la scuola, l’acqua rischiano di finire nel tritacarne. L’agricoltura è un terreno minato, la Pac (politica agricola comunitaria) è accusata da tempo di protezionismo. Per esempio, gli Usa non riconoscono la denominazione di origine, difesa invece in Europa. Il Trade mark Usa esclude le indicazioni geografiche, quindi si corre il rischio che chiunque potrà chiamare “champagne” uno spumante o “parmigiano reggiano” un formaggio duro. Gli europei potrebbero trovare nei loro piatti la carne agli ormoni made in Usa, i prodotti Ogm, subire le carcasse di animali lavate con la varechina. Già ora i vari trattati bilaterali configurano la politica industriale della Ue, che non esiste come programma (il settore auto nell’accordo con la Corea, per esempio). Con gli Usa, che arrivano in forza, sarà peggio. Per Washington il Ttip è cruciale. Fa parte di una strategia, sottolinea Defraigne, di “chiudere in tenaglia” la Cina, con la Trans Pacific Partnership (Tpp), la vasta zona di libero scambio con numerosi paesi asiatici, e il Ttip con la Ue. Mentre l’Europa non ha strategia comune e la corsa alla liberalizzazione finirà per dividerla ancora di più.
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