Avere una moneta propria e cambi flessibili presenta vari vantaggi e può alleggerire il debito estero, come insegna il caso inglese. Ad esempio scarica sui creditori esteri una parte delle perdite dovute alla svalutazione
Quaranta anni fa – il 15 agosto del 1971 – il sistema di Bretton Woods, basato sui cambi fissi, è crollato. Da allora la quasi totalità dei paesi del mondo è passata a un sistema di cambi flessibili. L’Europa – e l’Europa continentale in particolare – ha opposto una tenace resistenza ai cambi flessibili, resistenza che si è tradotta prima, nell’ormai lontano 1979, in un sistema europeo di cambi fissi, lo Sme, e poi, vent’anni dopo, in un irreversibile sistema di cambi “superfissi”, la moneta unica.
Un sistema di cambi flessibili presenta, rispetto a un sistema di cambi fissi, due principali caratteristiche. La prima è quella di consentire un aggiustamento automatico della bilancia dei pagamenti di parte corrente. Il meccanismo è semplice e immediatamente comprensibile: quando si manifesta uno squilibrio (per esempio un deficit) nella bilancia dei pagamenti la moneta si svaluta, di conseguenza le importazioni (più care) diminuiscono, le esportazioni (più competitive) aumentano e l’equilibrio si ricostituisce.
La seconda caratteristica, assai più in ombra e meno discussa, è quella di consentire una “flessibilità” anche del debito pubblico. Se qualcosa va male nell’economia del paese – e non solo la bilancia dei pagamenti, ma anche ad esempio qualcosa che riguardi la sostenibilità del debito, fallimenti bancari ecc. – la moneta si svaluta e con essa il debito: un nuovo equilibrio viene ricostituito con un costo economico e sociale modesto.
Questo “meccanismo”, anch’esso automatico, è stato, ed è tuttora, considerato in Europa “disdicevole” e soprattutto impraticabile. Se con la svalutazione ci si autoriduce il debito, chi vorrà poi mai sottoscrivere nuovo debito del paese in questione? La sua credibilità sarà minata per sempre e il default sarà inevitabile. Questo “mantra” ci è stato ripetuto dalle nostre Autorità monetarie con tenace insistenza per vent’anni e più.
Bisogna dire semplicemente che è falso e che le esperienze di trent’anni e più di storia finanziaria lo dimostrano.
Quando una moneta si svaluta il suo debito, per i detentori esteri, si svaluta: subiranno una perdita e si leccheranno le ferite, ma ciò fa parte delle regole del gioco che i mercati hanno ormai digerito. Svalutandosi la moneta e quindi il debito, il prezzo dello stesso per i compratori esteri diminuisce e quindi i rendimenti aumentano: a un certo punto potenziali compratori esteri giudicheranno che a quei livelli il debito pubblico di quel paese è diventato un buon affare e rientreranno e anche il cambio si stabilizzerà: chi avesse comprato nel punto di minimo avrà fatto un ottimo affare.
Non è teoria: è quanto è successo, ormai tante volte negli ultimi decenni.
Prendiamo a conferma due recenti esempi, di segno opposto.
Tra l’agosto del 2007 e il gennaio del 2009 la sterlina, sull’onda della grande crisi finanziaria di cui Londra è stata uno dei due epicentri, è passata da una quotazione contro euro di 1,47 a una di 1,02: si è svalutata dunque del 30% circa. I detentori esteri di debito inglese hanno quindi subito una perdita ingente. Certamente il debito pubblico inglese è parecchie volte più grande di quello greco e certamente la quota di esso posseduta dall’estero è, in valore assoluto, assai maggiore di quella del debito greco posseduto dall’estero. Eppure la cosa è passata, direi, sotto silenzio: non ci sono stati alti lamenti o deprecazione e rampogne verso l’Inghilterra, la sua politica economica, il suo welfare ecc. La ragione è semplice: la sterlina aderisce a un sistema di cambi flessibili e l’eventualità di una sua svalutazione era da mettere in conto (come pure l’eventualità di una sua rivalutazione: tra parentesi, successivamente la sterlina ha riguadagnato un 10%). I detentori esteri di debito inglese hanno sofferto in silenzio. Diciamo poi, per inciso, che certamente la svalutazione della sterlina ha alleviato di molto la gestione della crisi inglese che era, ed è, assai difficile. Diciamo pure che la consistente svalutazione non ha avuto effetti apprezzabili sulla inflazione interna: la sterlina non si è certamente avvitata in quella spirale svalutazione-inflazione che i nostri guru evocano con tenacia.
Il secondo esempio è, ovviamente, quello greco. Se la Grecia avesse avuto una sua moneta e un cambio flessibile certamente la moneta greca si sarebbe svalutata, alleggerendo l’onere del debito e portando la sua bilancia dei pagamenti verso un rapido miglioramento, il che, ricordiamolo, vuol dire anche attaccare alla radice la causa di creazione del debito estero. Probabilmente una svalutazione del 30%, pari cioè a quella subita senza clamore dalla sterlina, sarebbe stata sufficiente a rimettere le cose a posto e a evitare alla Grecia l’inferno in cui essa ora si trova.
Ma per la Grecia questo aggiustamento automatico e relativamente indolore non è stato possibile perché la Grecia ha il “privilegio” di aderire all’euro.
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