Sono bastati una riunione dell’Ecofin e l’ammonimento di Draghi per far abbassare la cresta a Francia e Italia, e ridurre a zero le ambizioni della campagna elettorale di Hollande e della non campagna di Renzi. Altro che investimenti produttivi per i quali i due leader si impegnavano a tenerli fuori dai vincoli di bilancio europeo: ambedue si sono orientati a premere esclusivamente sulla riduzione non solo del costo del lavoro ma dei salari (magari come ulteriore riduzione degli occupati). Hollande non ha bisogno di leggi ad hoc, annuncia che rifarà il massiccio codice del lavoro e viene da settimane di fuoco: prima ha licenziato in tre ore il ministro della crescita produttiva Arnauld Montebourg, seguito da Hamon e Filippetti, messi fuori dal governo in quattro e quattr’otto; poi ha dovuto incassare trenta voti contrari della sua maggioranza in Parlamento, mantenendo la propria per un solo seggio. Ma questo non lo ha fatto deviare dalla strada intrapresa: il presidente ha preso la parola per una conferenza stampa nella quale ha assicurato che non avrebbe cambiato di una virgola la sua rotta disastrosa. Fra non molto, ci saranno le elezioni regionali e prestissimo quelle del Senato; di questo passo sarà un’altra tempesta che si addensa sui socialisti ma sia Hollande sia Valls tengono fermo, forse sperando, come confermano alcuni personaggi a loro vicini, in una benevola “curva di Kondriatev”, l’”onda lunga” del ciclo economico che assicurerebbe una ripresa naturale della crescita entro la fine del mandato.
In Italia, Renzi ha parzialmente scoperto le carte dell’ormai famoso Jobs Act. E ha affrontato a muso duro lo scandalo di un’ennesima messa fuori campo dell’articolo 18, quello che impediva il licenziamento “discriminatorio”. L’intera stampa italiana si è schierata con lui, eccezion fatta del manifesto, argomentando soprattutto che il famoso articolo avrebbe soltanto un valore simbolico, in quanto viene raramente usato – è noto che la maggior parte dei licenziamenti si fa per vere o presunte ragioni economiche, che non riguardano crisi di bilancio delle aziende ma un mutamento delle strategie, soprattutto in direzione delle delocalizzazioni. Mentre viene sottovalutato quel che a me pare il maggior scandalo, e cioè il dispositivo per cui nei primi tre anni di impiego “a tempo indeterminato” qualsiasi lavoratore sarebbe soggetto al licenziamento. Perché tre anni? Qualsiasi operaio vi dirà che per imparare a menadito la mansione che gli è richiesta basta al massimo una settimana; dunque anche a metterne due l’azienda è in grado di rendersi rapidamente conto se egli sia è in grado o no di inserirsi nel piano produttivo. Perché consentire al padrone ben tre anni di “flessibilità” gratis? Nessuno lo spiega. È un sistema per prolungare il precariato – non so come potrebbe essere definito differentemente – rendendo tutti precari fin dall’inizio del cosiddetto “impiego a tutele crescenti”: tre anni a tutele zero.
Salvo Luciano Gallino e Pierre Carniti, tutta la stampa ha dato rilievo positivo alla scelta di Renzi, accompagnata, come sua abitudine, da insolenze verso il sindacato. La stampa presunta di centrosinistra, come Repubblica, si è distinta nella crociata contro il conservatorismo di chi vorrebbe conservare qualche diritto al lavoro: fra questi una parte del Pd considerata vecchia e conservatrice. Non solo i giovani Fassina e Civati, ma il vecchio Bersani. Vedremo per quanto tempo la minoranza dell’area ex comunista resisterà all’attacco, ma è certo che se molla sarà scomparsa anche l’ombra dell’abominato Pci e resterà da constatare che cosa ne assumerà il cambio senza confondersi col centrismo vero e proprio, peraltro rappresentato in primo luogo dal giovane premier. È in corso la trasformazione finale della scena politica italiana. Quella francese non ne ha neanche più bisogno, se si considera che al posto dell’irruente ministro Montebourg è stato nominato un dirigente della banca Rotschild. In più, in Italia, naturalmente, resta – avvinto a Renzi – l’evergreen Berlusconi. Per chi pensava di aver diritto diritto a un lavoro, pieta l’è morta.
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