La crisi europea trascina al ribasso la domanda di merci, la piccola ripresa Usa non basta a far viaggiare il carrello globale e anche il colosso cinese mostra segni di rallentamento
La Wto quest’anno ha cominciato a parlare di dati veri, cioè della voragine in cui è caduto il commercio globale nel 2012, solo a pagina 21 di un ampio formato A4 a 2 colonne. Nemmeno un accenno nell’introduzione del Direttore generale uscente, Pascal Lamy. Elegante nonchalance anche nella sintesi d’apertura, su cui si concentrano stampa frettolosa e lettori superficiali. E invece noi cominciamo proprio da lì, dalle pagine interne del rapporto, fitte fitte di cattive notizie, che qualcuno a Ginevra voleva far dimenticare. Che ci rivelano che il commercio globale va male, anzi decisamente male. E che le preoccupazioni che crescono nell’opinione pubblica per i cambiamenti climatici e la degradazione dell’ambiente dovrebbero ridimensionare il global-ottimismo degli scorsi decenni in via definitiva.
L’Europa, che esporta il 6% in meno rispetto al 2011, trascina la domanda di merci nella sua crisi ed è così che il gli scambi internazionali nel 2012 sono cresciuti solo del 2%. Il dato del 2011, quello su cui si basavano tutti i ragionamenti d’apertura, fissava il commercio mondiale a un +5,2%, ma il 2013 si annuncia più simile all’anno che l’ha preceduto. Può pesare così tanto la crisi europea? Si, ammette la stessa Wto, che calcola che il bisogno di merci UE valeva nel 2012 il 32% della domanda globale includendo gli scambi intra-Ue, e ben il 15% anche escludendoli. Le sforbiciate del 2012 sono nette: -8% in Italia, -10% in Francia, -18% in Grecia. In crisi anche la produzione, cresciuta a livello globale del 2% circa, con una riduzione del 2,4% rispetto al 2011 e del 3,8% rispetto al 2010.
Redditi bassi e disoccupazione hanno trasformato gli accaniti consumisti dei Paesi sviluppati europei in non acquirenti, le nostre imprese in chiusura libera in non-trasformatrici, e la piccola ripresa Usa non basta a far viaggiare il carrello globale come prima. Le esportazioni globali, infatti, sono cresciute appena dello 0,2% rispetto al 2011 in valore, e anche se i volumi sono un po’ più alti di così, accade perché i prezzi delle merci sono in caduta libera. Chi ha voluto vendere, insomma, nel 2012 lo ha fatto sottocosto accettando per il caffè un guadagno inferiore del 22% rispetto a quello dell’anno precedente, per il cotone del 42% inferiore, per l’acciaio grezzo del 23% in meno e per il carbone del 21% in meno. Anche il commercio dei servizi, la grande speranza del mercato futuro solo che 10 anni fa, cresce appena del 2%, e mentre gli States ne esportano il 4% in più, la Germania perde il 2% e la Francia il 7% della propria quota di export.
Una domanda in caduta libera
Se è vero come è vero che il commercio globale si configura intorno al 26% come commercio di beni intermedi, e se è vero come è vero che i lavoratori ex-benestanti del Nord, dove si concentrava gran parte della trasformazione di alto valore aggiunto, stanno perdendo reddito e lavoro, chi potrebbe, di grazia, produrre ed acquistare merci di valore? Se il lavoro si sposta nelle fabbriche globali, dove si sgobba da schiavi per due soldi, il consumo non può seguirlo. E lentamente il mostro, che ha ingoiato la sua coda da un bel po’, comincia a mordersi gli organi vitali. Aumentano le esportazioni dei Paesi africani, ma con i prezzi bassi delle materie prime che abbiamo visto, non li arricchiscono. Anche perché, d’altro canto, accordi commerciali svantaggiosi e la concentrazione nelle produzioni da export li rende bisognosi di tutto, e per questo debbono importare sempre di più: +11,3% nel 2012, il record di dipendenza commerciale del pianeta.
Anche il miracolo cinese ha i contorni più sfumati: se le sue esportazioni nel 2010 crescevano del 28%, già nel 2011 erano all’ 8,8%, e nel 2012 sono scese ancora al 6,2%. Se si considera che le importazioni sono cresciute con lo stesso passo, ma con una brusca frenata nel 2013 (rispettivamente +22% nel 2010, +8,8% nel 2011 e +3,6% nel 2012) e il tasso di disoccupazione ad un preoccupante 4% e oltre in città, il quadro è completo. La torta del commercio globale è spartita, per la maggior parte, tra UE, Cina, Usa e Giappone, ma la ricetta, nelle sue direttive di “lievitazione infinita”, come un soufflé impastato male, implode. Ed è chiaro che cifre del 2012 sono tenute un po’ sottotono perché non indeboliscano il “libro dei sogni”. Si perché il Rapporto sul commercio globale 2013 tradisce una profonda preoccupazione: che la fine del “global-ottimismo” rafforzi la lugubre ombra che incombe sul futuro stesso della Wto come istituzione.
Il multilateralismo alla prova della “fabbrica globale”
Da un paio d’anni la Wto sta ragionando sugli effetti che l’internazionalizzazione spinta delle filiere sta avendo sulle dinamiche commerciali. La produzione, infatti, oggi, è in larga parte acquisizione di funzioni e di pezzi di prodotti intorno al mondo, e la competizione tra imprese si basa sul surfare il pianeta più velocemente possibile in cerca di trasformazione, assemblaggio e distribuzione al minor prezzo economico e legale possibile. È per questo che c’è bisogno di abbattere, insieme alle dogane, anche le legislazioni nazionali: più liscio il mondo, meno diritti, salari, ambiente si tutelano, più velocemente e vantaggiosamente le imprese operano in questa folle corsa verso i profitti di pochi e la tragedia certa per gli altri.
I paesi ex-colonialisti, avendo una struttura commerciale allenata sull’import-export, si rivelano nei fatti i più adatti a competere in questo ambiente: nonostante la gran retorica profusa a dimostrare che i paesi in via di sviluppo hanno beneficiato in misura crescente delle opportunità della globalizzazione, le esportazioni globali, che valevano nel 2012 9,838 miliardi di dollari, vengono effettuate nel 2012 per il 19% dall’Europa a 27, per il 16% dagli Usa, per il 15% dalla Cina, unico tra i cosiddetti “Paesi emergenti” ad emergere davvero visto che il Brasile esporta appena l’1% delle merci globali, India e Russia il 2%, nonostante abbiano strutturato negli ultimi anni tutto il proprio assetto produttivo per questa sfida, a colpi di land grabbing e doping ai capitalisti nazionali. All’interno di questi blocchi, infatti, chi riesce davvero a stare sul mercato globale si conta in un selezionato pugno di operatori: l’80% delle esportazioni di tutti gli Stati Uniti è in mano all’1% degli operatori. Se mettiamo insieme i primi 10 operatori Usa, la Wto ci dice che effettuano il 96% delle esportazioni nazionali. L’1% dei gruppi europei concentra il 10% delle esportazioni Ue, il 10% ne controlla l’85% circa. E per i paesi in via di sviluppo le cose non cambiano: l’81% delle esportazioni sono concentrate nelle mani delle 5 imprese più grandi. Anche la top ten delle imprese italiane si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali.
E quindi la domanda più logica di tutte è: se facilitare le esportazioni fa crescere il lavoro mal retribuito e la disoccupazione, e avvantaggia una ristrettissima cerchia di paesi e di imprese, perché noi, maggioranza crescente sfruttata e fragilizzata del pianeta, dovremmo assistere inerti al massacro delle garanzie sociali, politiche e ambientali destinate a cadere insieme a molte barriere doganali, per il puro profitto di un pugno di pirati?
La “polpetta” verde avvelenata
Una delle cose che preoccupa di più gli analisti della Wto è quella che loro chiamano “associazione emotiva” da parte dei cittadini di tutto il mondo tra cambiamenti climatici e intensificazione del commercio internazionale. Non esiste, a loro dire, più che una coincidenza tra i due fattori, visto che, ripetendo ossessivamente il mantra affermato dagli Stati membri alla Conferenza sul clima delle Nazioni unite Rio + 20, essi sostengono che liberalizzazione commerciale e protezione ambientale sono i due pilastri dello sviluppo sostenibile. Il loro teorema, infatti, prevede che un mercato più libero porti più benessere nei cittadini, che così possono permettersi il lusso di essere più attenti all’ambiente. E che una produzione migliore permetta di internalizzare nei prezzi finali dei prodotti anche i loro costi ambientali.
Peccato che, solo poche pagine prima, gli stessi esperti hanno dovuto ammettere che le analisi a lungo termine concentrano nei combustibili fossili il 75% della domanda energetica di qui al 2035, e che in quella data le fonti rinnovabili, a questi ritmi di crescita, riusciranno a soddisfarne al massimo il 15%. Che più del 50% della superfice del pianeta è stata modificata dalle attività umane pagando un prezzo inestimabile in biodiversità. Che 8 paesi sviluppati e 11 paesi in via di sviluppo, gli stessi protagonisti del commercio globale, sono responsabili di oltre ¾ delle emissioni globali. Che tra il 2010 e il 2050, se la crisi non fermerà questa corsa al massacro, il livello di emissioni provocate dai trasporti internazionali aumenterà di 4 volte fuori dall’area Ocse e di una volta e mezzo in area Ocse. E che l’unica risposta che la Wto stessa sa dare a questa deriva è quella di chiedere agli Stati membri di abbattere i dazi sui prodotti “verdi” come pannelli solari e lampadine a led perché si diffondano di più sui mercati emergenti, senza curarsi, però, di investigare se i processi che li realizzano sono davvero puliti e giusti? Oppure se ci sarà ancora qualche working poor meno povero di altri che avrà soldi abbastanza da potersi permettere la bolletta della luce, o una vera casa per cui pagarla?
La realtà, che la stessa Wto è costretta ad ammettere, ci parla di imprese onnipotenti che aggirano le normative ambientali nazionali delocalizzando in filiere tortuose e opache i processi più “sporchi” lontano da casa propria, aggravando la disoccupazione a livello nazionale e l’inquinamento del pianeta tutto. Se poi, come potrebbe accadere nell’accordo di liberalizzazione commerciale bilaterale tra Stati Uniti ed Europa, ci si servirà dell’illusione della ripresa commerciale come ricetta anti-crisi per livellare al ribasso gli standard produttivi, di salubrità e sicurezza in nome di una più facile circolazione delle merci, la corsa al massacro del pianeta risulterà accelerata e la “differenza europea” in termini di protezione della salute e del welfare, nei fatti azzerata.
“Dobbiamo ricordarci – ammonisce il direttore uscente della Wto Pascal Lamy nella sua ultima introduzione al Rapporto, parlando del conflitto crescente tra globalizzazione e istinto di protezione che lui bolla come protezionismo – che i benefici portati dalla globalizzazione potrebbero essere annullati o ridotti se delle pressioni a breve termine ci porteranno a non tenere in conto gli interessi a lungo termine, e se verranno trascurate le conseguenze sociali dell’annullamento dei suoi benefici”. Ma se continueremo a trascurare le conseguenze sociali, economiche e ambientali dei suoi malefici, caro Lamy, chi ci troverà un pianeta di riserva dove sopravvivere?
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