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La Cina è vicina?

01/04/2014

L'ascesa del gigante cinese ha cambiato radicalmente gli equilibri geopolitici mondiali. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo del libro di Vincenzo Comito La Cina è vicina?, edito da Ediesse.

Non mancano certo gli elementi per criticare anche aspramente, come è da tempo la norma in Occidente, il modello di crescita cinese; i problemi sono dappertutto nel paese, dagli alti livelli di inquinamento, alle forti diseguaglianze sociali, dallo sfruttamento dei lavoratori, alle carenze democratiche e così via.

Ma di fronte ad una sterminata letteratura ormai disponibile sul caso cinese, per gran parte ostile, l’autore di questo testo non nasconde la sua simpatia per il risveglio del gigante asiatico e per la sua crescente affermazione nel mondo. Una dissenting opinion che non intende peraltro nascondere le profonde contraddizioni che tale sviluppo reca con sé e che sono a lungo analizzate nel testo.

Non si tratta tanto del riconoscimento del fatto che il Paese si avvia, entro pochi anni, a diventare la più grande economia del mondo (ma forse lo è già) e, nel medio termine, la potenza egemone. Né della speranza, ancora presente, ad esempio, in un autore come Giovanni Arrighi, della natura ancora socialista del Paese; speranza che, a nostro parere, non sembra ormai avere troppe fondamenta.

Le simpatie dell’autore per il Paese asiatico hanno altre basi. E segnatamente intanto questa: la Cina è riuscita, nell’arco di pochi decenni, a togliere dalla povertà estrema circa 600 milioni di suoi abitanti, anche se certamente esistono ancora nel Paese delle sacche importanti di miseria.

I risultati cinesi non hanno, peraltro, niente a che fare con quelli dell’India, un Paese molto lodato per il suo sistema politico democratico. Ma la cui attenzione verso i problemi dei dannati della terra è sempre stata sostanzialmente minima.

Guardiamo ad alcune statistiche ricordate da A. Sen e da J. Drèze nel loro testo sull’India pubblicato nel 2013. Intanto le dimensioni dell’economia cinese sono ormai almeno quattro-cinque volte più grandi di quelle dell’altro paese asiatico. L’attesa di vita alla nascita è oggi di 65 anni per i cittadini indiani, contro i 73 anni per la Cina; la mortalità infantile ha un valore per il primo Paese del 47 per mille contro il 13 per mille del secondo; per quanto riguarda la percentuale dei bambini vaccinati siamo al 72% contro il 99%; per quella dei bambini sottopeso al 43% contro il 4%; per quella delle ragazze di età compresa tra i 15 e i 24 anni alfabetizzate al 74% contro il 99%; infine, il rapporto studenti/maestri nella scuola elementare è di 40 allievi contro 17 (peraltro anche molto meglio che in Italia). Non c’è confronto possibile.

Su un piano diverso va osservato che di fronte ad un mondo sino a ieri dominato dagli Stati Uniti, l’affermazione della Cina ci porta progressivamente ad avere due padroni del mondo. Il che è meglio che averne uno solo: il mondo, pur con le sue contraddizioni, ci appare sicuramente più libero.

Certo non siamo al crollo degli Stati Uniti, non ci troviamo in una situazione come quella a suo tempo descritta da Rutilio Namaziano, quel funzionario dell’impero romano che, tornando da Roma via mare al suo Paese natale, la Gallia, osservava ogni giorno nel suo lungo viaggio i segni anche fisici della decadenza e dell’imminente crollo dell’impero.

Chi scrive pensa che sarebbe ancora meglio che il mondo non avesse padroni e che tutti i Paesi si sedessero al tavolo del potere con pari dignità; ma, aspettando con speranza quel giorno, accontentiamoci di quello che sta succedendo oggi.

Si potrebbe certo sperare che l’Europa diventi il terzo protagonista dei ‘giochi’ mondiali, ma la sua persistente disunione indica che tali speranze sono ormai ridotte al lumicino. Né si può pensare all’India come un possibile grande protagonista. Il Paese, pur con le sue grandi potenzialità, appare anch’esso chiaramente ormai al di fuori del circuito dei grandi e il treno sembra essere anche in questo caso passato.

Un’altra ragione, per cui l’autore guarda con molta partecipazione alla crescita della Cina, è dovuta al fatto che egli ha avuto molta simpatia da giovane per il grande processo di liberazione dal giogo coloniale dei Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina e segue, ancora oggi, con molta partecipata attenzione, nonostante alcune disillusioni, i loro progressi, sul fronte economico, sociale, politico.

Non si può non assistere con compiacimento al fatto che la Cina e tanti altri Paesi stiano progressivamente acquisendo il rango che spetta loro storicamente e contribuiscano attivamente a stabilire un nuovo equilibrio mondiale.

Non si tornerà probabilmente al 1411 quando, nel pieno della dinastia Ming, la Cina, al massimo della sua potenza, aveva un peso economico preponderante rispetto agli altri Paesi del mondo. Ma, d’altro canto, nessuno potrà più ritenere su solide basi che quello da poco iniziato sia un nuovo secolo americano.

Naturalmente bisogna sempre lasciare il beneficio del dubbio a tutte le estrapolazioni dalle tendenze attuali ai prossimi decenni. La storia fa spesso dei brutti scherzi, ma il percorso sembra in larga parte segnato.

Vincenzo Comito La Cina è vicina?, Ediesse, 2014

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Commenti

Sempre Arrighi

Questo fatto di Hu Jintao che cita Arrighi non lo sapevo.
Comunque, aldilà della critica sulla lettura di Arrighi, il volume di Comito mi sembra interessante e cercherò di recuperarlo in fretta

Arrighi e Cina 'socialista'

Penso anch'io che in Italia Arrighi sia stato letto con troppe prevenzioni. Nel resto del mondo non è così ed è bene ricordare che proprio in Cina è un autore molto studiato: alcuni dei suoi libri sono i testi di base di corsi di Relazioni Internazionali delle prestigiose università cinesi. E lo stesso Hu Jintao, nel 2009, durante la visita di Obama, in un discorso ufficiale citò Arrighi.

Ma, a parte queste considerazioni, bisogna sottolineare un aspetto che quando si tratta di Cina finisce sempre per scomparire. L'economia di cinese è un'economia di mercato, ma che tipo di mercato? Ed è un'economia 'capitalista' così come abitualmente viene definito questo concetto? In Cina permangono elementi effettivi, sia sul piano giuridico che su quello politico e sociale, che contraddicono le definizioni correnti di una economia di 'mercato'. Per esempio l'intervento dello stato nella regolazione dei prezzi dei prodotti alimentari di base, l'esistenza degli 'ammassi' di stato di questi prodotti e il fatto che, sempre lo stato, acquista ogni anno una quantità di prodotti agricoli variabile ma sempre tale da garantire un livello minimo di reddito alle famiglie contadine, che tuttora costituiscono la maggior parte della popolazione.
Inoltre, la legislazione in materia di lavoro in Cina prevede che in un conflitto tra dipendenti e datore di lavoro, i dipendenti abbiamo 'presuntivamente' ragione ed è il datore di lavoro a dover dimostrare le proprie ragioni: in altri termini, lo stato si schiera 'per legge' con i lavoratori. Di conseguenza la quasi totalità dei numerosissimi conflitti di lavoro che arrivano ad una causa, si risolvono a favore dei lavoratori. Esiste un'altra economia di mercato in cui sussista un meccanismo del genere? e questa di per sé non è una 'limitazione' del mercato?
Infine, ma ci sarebbero anche molte altre particolarità da ricordare, è bene sottolineare che nella legislazione cinese si ribadisce con forza il principio che la proprietà privata è lecita ma vincolata e comunque subordinata all'interesse generale e alla sua capacità di produrre un beneficio collettivo. Nel 2003, i ministri economici, dopo aver nominato una commissione di studio che lavorò per un anno sull'argomento, rifiutò le pressioni del FMI e degli Stati Uniti per la liberalizzazione dei prodotti finanziari derivati proprio a partire dalla considerazione che quel tipo di prodotti non presentavano alcuna utilità per la comunità nel suo complesso mentre comportavano rischi sul piano finanziario le cui conseguenze potevano ricadere su tutta l'economia cinese. All'epoca molti commentatori occidentali parlarono di 'miopia' cinese e di dimostrazione, con questo rifiuto, del fatto che la Cina non fosse una vera economia di mercato e che i suoi dirigenti non avevano ancora compreso cosa fosse il 'mercato'.
Hu Jintao, durante la prima cena ufficiale con Obama, nel 2009, disse: 'Voi occidentali, quando volete criticare la nostra economia, citate sempre Adam Smith, ma noi, a differenza di voi, Adam Smith lo abbiamo letto, lo abbiamo letto tutto e bene'.

Arrigihi

Eppure, rileggendo Adam Smith a Pechino qualche anno dopo, bisogna notare due cose

1) l'estrema prudenza con cui Arrighi parlava di "natura socialista" (termine che effettivamente non usa mai in tutto il libro) della Cina, e l'estrema facilità con cui ammiratori del socialismo cinese (incluso il sottoscritto) e detrattori gli hanno affibiato quella posizione.

2) una lungimirante lettura della società cinese non come un blocco informe piegato ai voleri del Partito (o del capitale, o del Partito piegato ai voleri del capitale), ma come una società reale e storica (e già questo è tanto, considerate le tonnellate di orientalismo che ancora appesantiscono gli studi orientali), fortemente conflittuale e i cui indirizzi sono dettati dai risultati del conflitto sociale. Una lungimirante lettura delle "eredità del socialismo" alll'interno di dinamiche di mercato, una lungimirante lettura del decennio di Hu Jintao che ancora attorno al 2007-2008 veniva letto come uno sbiadito proseguimento del decennio di Jiang Zemin

insomma, rileggiamo Arrighi, con meno paraocchi. tutto quanti.

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