Con la crisi finanziaria i governi hanno scoperto che i paradisi fiscali sono un problema. I ministri dell'Economia ora corrono ai ripari. Qualche semplice misura che potrebbero prendere subito, a partire dagli off shore che hanno dentro casa propria, e dai bilanci delle società pubbliche
Quale Paese ha la più grande flotta di petroliere del pianeta? I maggiori consumatori di greggio, ovvero gli Usa? L'Arabia Saudita, prima nella classifica dei produttori? La risposta è la Liberia, uno degli Stati più poveri al mondo e con una popolazione di 4 milioni di abitanti. A seguito di diversi disastri ambientali, la comunità internazionale ha adottato una convenzione che prevede l'obbligo del doppio scafo per le grandi petroliere, in modo da limitare il rischio di sversamenti in mare a seguito di incidenti. La Liberia non ha ratificato tale convenzione. Il risultato si riassume in maggiori profitti per l'industria petrolifera ed enormi rischi per il nostro pianeta.
Va detto che non esiste un “paradiso fiscale perfetto”. Molte giurisdizioni si specializzano in alcune operazioni, solitamente di natura finanziaria, attirando così i capitali e le imprese che possono trarre vantaggio da specifiche lacune nella legislazione e nelle normative internazionali. Una sorta di nicchia di mercato per moltissime realtà che hanno tratto profitto dalla liberalizzazione selvaggia dei mercati, di quelli finanziari in particolare, e dalla corrispondente mancanza di leggi e di istituzioni che potessero coprire i vuoti normativi e le “zone grigie” tra le diverse giurisdizioni.
E' così che diversi studi considerano di volta in volta tra i paradisi fiscali l'Olanda per le sue società nominali, la City di Londra per le sue operazioni finanziarie, la Svizzera per il segreto bancario, le Isole Cayman, dove è registrato più dell'80% degli hedge fund del mondo, e così via.
Questa diversificazione e specializzazione può in parte spiegare la difficoltà, se non il vero e proprio fallimento, della comunità internazionale nella lotta contro i paradisi fiscali. Di fronte a agguerritissime – e strapagate – pattuglie di consulenti e studi legali costantemente alla ricerca di nuovi metodi per evadere il fisco e le leggi, le mosse eseguite dalle istituzioni sono apparse come il tentativo di fermare una valanga a mani nude.
Storicamente, è stata l'Ocse la prima organizzazione a muovere contro i territori offshore, con la pubblicazione della sua “lista nera” di giurisdizioni non cooperative in materia fiscale. Una lista attualmente ridotta a soli 3 Paesi, a fronte degli oltre 70 che la rete internazionale della società civile Tax Justice Network ha inserito nella propria. Analoghi tentativi del Fatf-Gafi nell'ambito della lotta al riciclaggio del denaro, del Fmi o di altre istituzioni sembrano avere dato risultati ancora più deludenti.
E' quindi il caso di gettare la spugna? Al contrario, sarebbe possibile ottenere risultati ben diversi se si cambiasse mentalità, con un maggiore impegno dei più grandi governi del Nord e con una maggiore determinazione. Vediamo alcune misure che potrebbero segnare una netta inversione di rotta.
Stabilire uno scambio automatico di informazioni tra Paesi per tutto quanto riguarda la materia fiscale. Oggi è necessaria una richiesta esplicita di uno Stato che cerchi di ottenere informazioni sul comportamento in ambito finanziario e fiscale di una data impresa o di una persona all'estero. Questo significa settimane o mesi per portare avanti indagini internazionali, mentre i capitali possono essere spostati e fatti sparire in altri territori con pochi clic di un computer.
Introdurre una rendicontazione Paese per Paese (Country by Country reporting) dei dati contabili e fiscali delle imprese multinazionali, che oggi devono riportare nei propri bilanci unicamente dati aggregati per macro-regioni. Una misura di buon senso che consentirebbe un decisivo salto di qualità nella lotta contro l'evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio e la criminalità organizzata.
Enti quali i trust, che garantiscono un completo anonimato e un'assoluta segretezza, devono essere dichiarati illegali. A cosa servono, se non coprire attività criminose, riciclaggio o evasione?
Le maggiori potenze economiche devono accordarsi su sanzioni verso le giurisdizioni che non collaborano, fino al blocco di ogni operazione commerciale, economica e finanziaria. Questo coordinamento e questa volontà politica nelle nazioni del Nord fino a oggi sono mancati, permettendo a piccoli Paesi che contano poco o nulla nello scacchiere internazionale di proliferare e diventare paradisi fiscali.
Ancora prima di introdurre nuove normative internazionali, perché non iniziamo a guardarci in casa? Quanti sono i paradisi fiscali all'interno della virtuosa Unione Europea o sotto il controllo più o meno diretto di nazioni europee? Quante imprese nostrane hanno filiali, sussidiarie e controllate in qualche paradiso fiscale?
Queste semplici domande tracciano la strada per due linee di lavoro: da una parte intensificare gli sforzi sul piano internazionale per eliminare i paradisi fiscali, dall'altra svuotarli delle loro prerogative. Nella sua breve carriera di senatore, l'attuale presidente Usa Barack Obama ha avanzato la proposta di proibire ogni finanziamento pubblico alle imprese che hanno filiali nei paradisi fiscali. Perché non promuovere immediatamente tale normativa anche in Italia e in Europa? In un momento di massicci ricorsi all'aiuto pubblico, si tratterebbe di un segnale forte per evitare che le imprese con una mano nascondano al fisco quanto dovuto, mentre con l'altra raccolgono risorse dallo stesso fisco, ovvero dai cittadini.
E ancora, perché governi e banche centrali non impediscono alle nostre banche di aprire filiali offshore? Perché alle imprese non si proibisce di realizzare operazioni finanziarie in questi territori?
In maniera ancora più elementare, è possibile pensare che imprese a partecipazione pubblica, e magari nelle quali lo Stato è l'azionista di riferimento, possano anch'esse avere una complessa rete di filiali e controllate negli stessi paradisi fiscali? Il colmo sarebbe se proprio il ministero dell'Economia e delle Finanze, il cui ruolo dovrebbe essere quello di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, fosse azionista di maggioranza di tali imprese, magari proprio qui in Italia, magari nel settore energetico...
I paradisi fiscali sono interamente funzionali a un consolidato sistema di potere finanziario, economico e politico concentrato nelle nazioni del Nord. E' ipocrita e falso addossare a poche isole e altre piccole giurisdizioni la responsabilità degli attuali enormi problemi legati all'esistenza di tali territori. A proposito, se avete intenzione di registrare una petroliera battente bandiera della Liberia, non dovete recarvi in Africa. Lì non sarebbero probabilmente in grado di aiutarvi. Quasi tutte le flotte della Liberia sono gestite direttamente da società con gli uffici nel Delaware, il paradiso fiscale nel cuore degli Stati Uniti.
Nella sezione Documenti, il Rapporto "La finanza contromano", sui paradisi fiscali
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