L’opinione pubblica tedesca è stata educata a pensare di essere la spina dorsale di un’Europa in cui gli altri Paesi sono fardelli che pesano su di lei. Ma è proprio così?
A metà luglio, lo storico Jacob Soll scriveva sulle pagine del New York Times a proposito di un convegno sul debito greco tenutosi in Germania: “Alla fine della sessione, i partecipanti locali mi hanno avvicinato per spiegarmi come I greci stiano derubando I tedeschi e dirmi che erano stufi di essere vittime”. L’opinione pubblica tedesca è stata educata negli ultimi 20 anni a pensare di essere la spina dorsale di un’Europa in cui gli altri Paesi sono fardelli che pesano su di lei. Ma un’analisi più attenta mostra una situazione diversa.
Il contributo finanziario tedesco all’Unione, benché non trascurabile nel bilancio europeo, è poca cosa se confrontato con il PIL tedesco: nell’arco del settennato 2007-2013, la differenza fra quanto versato da Berlino a Bruxelles e i contributi ricevuti da istituzioni, imprese e cittadini tedeschi nell’ambito dei programmi europei è oscillata tra i 6 e i 13 miliardi annui, ovvero meno dello 0,5% del reddito nazionale e un centesimo circa della complessiva spesa pubblica tedesca.
Ben più consistenti sono stati, negli anni seguiti allo scoppio della crisi, i benefici della moneta unica per l’economia e le finanze pubbliche tedesche. In primo luogo la Germania ha potuto beneficiare di tassi di interesse sui propri titoli pubblici eccezionalmente bassi, in alcuni casi negativi anche su scadenze pluriennali: più si diffondeva il panico tra gli investitori circa la solvibilità dei paesi mediterranei aderenti all’eurozona, maggiore era la corsa ai titoli tedeschi considerati privi di rischi in un frangente di incertezza generale nei mercati finanziari. La politica monetaria espansiva della BCE, stante la sua impossibilità di essere prestatore di ultima istanza per gli stati in difficoltà (almeno fino alla dichiarazione della BCE nel luglio 2012 di preservare l’unione monetaria “con ogni mezzo”), ha alimentato questo circuito fornendo enorme liquidità a operatori alla frenetica ricerca di titoli risk-free.
Come calcolato dal Leibniz Institute for Economic Research il risparmio per le casse pubbliche tedesche a partire dal 2010 è calcolabile in oltre 100 miliardi di euro, una cifra ben superiore ai finanziamenti e alle garanzie forniti dalla Germania per sostenere il debito greco: anche nel caso di un completo default ellenico le perdite per Berlino ammonterebbero a circa 90 miliardi. A ciò va aggiunto il vantaggio per gli operatori privati tedeschi: mentre in larga parte del continente si assisteva ad un credit crunch, il bassissimo tasso di interesse sui titoli pubblici, fornendo un benchmark per il mercato del credito, spingeva verso il basso il costo del denaro prestato a imprese e banche.
Facendo qualche passo indietro, aggiungiamo un ulteriore elemento: la moneta unica ha permesso in Germania il consolidarsi dell’ormai famoso surplus della bilancia commerciale. Cosa significa? Significa che la Germania esporta molto più di quanto importa (in rapporto al Pil, molto più della Cina, colosso delle esportazioni, che invece ha visto calare il surplus dal 2008). All’inizio dell’unione monetaria, la Germania –per affrontare l’elevata disoccupazione post-unificazione- ha optato per una dura politica di compressione salariale. Questo ha prodotto riduzione della domanda interna ed estrema competitività dei prodotti tedeschi (insieme ad altri fattori, certamente): competitività nelle esportazioni e domanda interna compressa- quindi basse importazioni- sono alla base del crescente surplus nei conti con l’estero. Una politica, insomma, molto sbilanciata a vantaggio delle imprese: come riportava qualche mese fa Philippe Legrain sul Sole 24 Ore, nonostante un aumento negli ultimi 15 anni del 17,8% della produttività del lavoro, i salari reali tedeschi oggi sono più bassi rispetto al 1999. E qui entra in gioco la moneta unica. Con questa politica così orientata all’esportazione, in una situazione di cambi flessibili, sarebbe intervenuto un meccanismo equilibratore: il marco tedesco si sarebbe apprezzato (perché la domanda di marchi per comprare merci tedesche sarebbe aumentata al punto di farne salire il valore) e questo avrebbe iniziato a rendere le merci tedesche più care per il resto del mondo. Ma questo meccanismo è bloccato dall’euro, che invece non si apprezza e deprezza secondo le transazioni con l’estero della sola Germania, ma di tutta l’Eurozona. La Germania si è trovata così con una moneta sistematicamente sottovalutata rispetto a quello che avrebbe dovuto avere singolarmente, dato il suo surplus commerciale.
E all’interno dell’area Euro? Il risparmio così accumulato in Germania è diventato credito che le banche tedesche hanno trasferito nei Paesi della periferia: gli attori economici del Sud si sono trovati, con l’euro, a pagare interessi molto più bassi sui loro debiti, ma non così bassi da eliminare il vantaggio delle banche tedesche a inondarli di credito. Non solo: questi prestiti erano messi al riparo dai rischi legati al tasso di cambio e all’inflazione, entrambi problemi “spazzati via” dalla moneta unica. Questo dovrebbe dire molto sulla condivisione di responsabilità nell’esplosione del debito nei Paesi della periferia europea, che si sono trovati –nelle parole dell’economista Marc Blyth- di fronte a “uno tsunami di denaro a buon mercato con cui comprare merci tedesche”. Questo rende più chiare le ragioni per cui l’introduzione dell’euro ha prodotto una divergenza nei conti con l’estero: la Germania che esporta molto di più di quanto importi e gli Stati della periferia l’opposto. Il resto è storia recente: quando, con la crisi, i debitori del Sud sono diventati insolventi, sono intervenuti i fondi di salvataggio europei, che hanno spostato sulle spalle dei contribuenti le perdite delle istituzioni finanziarie, concretizzando quello che sempre Mark Blyth definisce “la madre di tutti gli azzardi morali”.
Oggi il governo tedesco, aggregando consenso attorno alla retorica del Paese modello che porta il fardello per gli altri, continua con questa politica di compressione della propria domanda interna e riduzione dei costi nella gara all’esportazione, nonostante i richiami persino dalla Commissione Europea. Il problema è che questo rende molto più difficile la ripresa dalla crisi di tutta l’Eurozona. La debole domanda tedesca non fornisce mercato per esportazioni degli altri Paesi, contribuendo ad approfondire la crisi di domanda, che ancora affligge l’area euro (e non solo, come lucidamente osserva in un recente contributo l’ex governatore della FED Ben Bernanke). In secondo luogo, questo tiene il valore dell’euro troppo alto per le economie in crisi della periferia, impedendo loro di riguadagnare competitività verso il resto del mondo. Così facendo, il surplus tedesco approfondisce la recessione e esporta deflazione negli altri Paesi dell’Eurozona; è utile ricordare che “deflazione” in un Paese indebitato significa che il valore del debito aumenta nel tempo, rendendone più difficile il pagamento.
Ma chi, in Germania, beneficia di queste scelte del governo tedesco? Non i lavoratori che vivono una stagnazione salariale ormai quasi ventennale, né chi ha bisogno delle infrastrutture pubbliche, vista la mancanza di investimenti; i beneficiari sono invece le imprese manifatturiere, che si trovano ad avere bassi costi di produzione e non patiscono la bassa domanda interna. Questo governo è però riuscito a rendere egemone un discorso politico che sposta l’attenzione dalle disuguaglianze interne verso una retorica vittimista in Europa, come abbiamo visto, piuttosto scollegata dalla realtà.
Senza un intervento politico, queste divergenze nell’Eurozona non potranno che aumentare. Questo significa che -al di là dell’uscita unilaterale dalla moneta unica, che avrebbe carattere spiccatamente nazionalista e la cui praticabilità sarebbe tutta da verificare- rimangono solo due opzioni: da un lato, uno scioglimento concordato dell’euro, i cui effetti distributivi nei mesi immediatamente successivi andrebbero attentamente valutati (un mix di inflazione, aumento dei tassi di interesse –con conseguente recrudescenza dell’austerità- riduzione dei salari reali, come avvenuto nel ’92 con la svalutazione della lira); dall’altro, un investimento serio in senso federalista, che doti l’Eurozona di un bilancio (e quindi un debito) federale a finanziare comuni politiche di sostegno alla domanda, con una politica industriale e delle politiche redistributive comuni, primi fra tutti un piano di investimenti, e il sussidio unico di disoccupazione.
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