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E' il momento della finanza minima

25/03/2009

Piano Geithner: come far sopravvivere (forse) il sistema che ha portato al crac. Mentre è necessario che la finanza torni al suo limitato ruolo originario

In una crisi ogni elemento e’ collegato a qualche altro, ed ogni tentativo di sistemare un pezzo del sistema implica il danneggiamento di un altro. In pratica, e’ necessario rompere le uova per fare la frittata. Per uscira da questa condizione bisogna individuare l’elemento piu’ robusto e accollargli i costi immediati derivanti dal salvataggio degli elementi piu’ deboli.

Semplificando all’estremo, gli elementi rilevanti del sistema economico sono tre: il settore finanziario, il settore reale (imprese non-finanziarie e famiglie), governo. Tutti e tre sono messi abbastanza male. Il settore finanziario e’ sostanzialmente in stato fallimentare, ed il settore reale non dispone del credito sufficiente per funzionare. Il governo e’ quindi chiamato ad usare risorse proprie (cioe’, le future tasse) e, sopratutto, a decidere come uscire dalla condizione attuale. Una delle poche cose su cui concordano tutti gli osservatori, infatti, e’ che non agire porterebbe ad un crisi peggiore di quella seguita al crollo di borsa del ’29, con il 25% di disoccupazione ed il crollo del 40% del PIL.

 

L’amministrazione americana ha giustamente identificato il (futuro) contribuente come la leva su cui fare forza, e sta dando precedenza assoluta al salvataggio degli elementi piu’ deboli: le banche. Ovvio che l’opinione pubblica si senta tradita quando viene a sapere che i “poveri” banchieri si sono accaparrati circa 100 il reddito dei piu’ fortunati tra i “salvatori”, contribuenti sempre piu’ spesso disoccupati. Per di piu’, questi soldi vanno sotto la voce “premio di produzione”, per lo splendido lavoro svolto in questi anni. In realta’ ha ragione il segretario al tesoro americano che non si poteva fare nulla per impedire il rispetto di contratti esistenti. Ne’, a dire il vero, mi sembra corretto considerarlo responsabile: spero faccia altre cose che leggersi i contratti di lavoro di imprese che non sono neanche nazionalizzate. La proposta approvata in fretta a furia dal congresso di tassare al 90% i bonus delle aziende con capitale pubblico e’ ottusa, inutile o, peggio, dannosa, riducendo la fiducia nei contratti e spargendo il timore di avere a che fare con il governo.

 

Ma la furia popolare e’ piu’ che giustificata in quanto indica una contraddizione di fondo del piano americano: salvare gli istituti finanziari e salvare il sistema finanziario sono due obiettivi diversi ed in conflitto. Il governo americano dovrebbe occuparsi solo del secondo, e lasciare al suo destino i primi.

 

Negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’80, il settore finanziario americano (ma anche inglese ed, in misura minore, di tutto il mondo) e’ cresciuto in maniera smisurata ai danni degli altri settori economici. La crescita ha riguardato ogni indicatore, come la quota del Pil generata, o la percentuale dei profitti. Inoltre, una male interpretata fiducia dei mercati ha rilassato ai limiti della delinquenza le misure di controllo ed anti-monopolistiche, favorendo la concentrazione di un crescente potere finanziario nelle mani di un numero sempre piu’ piccolo di attori. Il risultato è perfettamente esemplificato dalla truffa Medoff, che e’ riuscito a nascondere per decenni ammanchi dell’ordine di decine di miliardi di dollari grazie ai suoi contatti ed alla fiducia quasi religiosa nel potere dei mercati finanziari di generare ricchezza.

 

Il problema è che il settore finanziario nel suo insieme è cresciuto in maniera abnorme solo sulla carta, in base a numeri della stessa consistenza dei saldi dei correntisti di Medoff. Le banche hanno infarcito i propri bilanci di titoli totalmente fittizzi, senza alcun valore di fondo, se non la disponibilita’ di qualche altra banca a ricomprarlo a prezzi crescenti (fino a poco tempo fa). La mancanza di una componente reale legata ai titoli trattati ha permesso la una crescita infinita al rialzo, finche’ il pallone e’ scoppiato. Ora le banche scoprono di avere una quota enorme del loro capitale legata a titoli “tossici”, che nessuno (giustamente) vuole comprare. Dato che le banche possono fare prestiti in misura proporzionale al valore del loro capitale, sono state costrette ha bloccare l’erogazione del credito, andando con il cappello in mano dal governo per rimpinguare le loro casse.

 

Senza un settore finanziario una moderna economia non può funzionare, e di conseguenza è necessario far ripartire l’erogazione del credito. Ma come fare?

 

Il piano del governo americano si basa sull’ipotesi che i titoli delle banche (che vengono chiamati nei documenti ufficiali “legacy”, ereditati) siano solo temporaneamente sottovalutati. Facendoli tornare a livelli almeno un po’ piu’ alti di ora le banche avrebbero di nuovo gli strumenti per tornare a prestare soldi, e l’economia ripartirebbe. Questo farebbe felici le banche (i mercati azionari, controllati dalle imprese finanziarie, hanno brindato alle prime indiscrezioni del piano). Ma sono in molti a prevedere il fallimento di questa iniziativa.

 

Una prima difficoltà del piano è la sua complessa architettura che implica enormi incertezze. Infatti il piano prevede un sistema pubblico/privato che acquisti i titoli, con il governo che si impegna ad assumersi i rischi di perdite in cambio della competenza di enti privati nell’identificare i prezzi “veri” dei titoli tossici. Il problema che il governo ha cercato di risolvere è che non è affatto facile convincere investitori a trovare il giusto prezzo senza perdere denaro. E’ ovvio che senza il rischio di perdite manca l’incentivo fondamentale per assicurare i corretti prezzi di un titolo. D’altra parte, i titoli tossici sono tali perché nessuno ci vuole rischiare un centesimo. Il piano prevede un sistema in cui gli investitori hanno accesso a prestiti parzialmente garantiti, in modo che se l’investimento fallisce (cioè il titolo perde valore rispetto al prezzo di acquisto) il prestito usato non va interamente restituito.

 

Se questo sistema possa ottenere i risultati sperati non è molto chiaro, dato che nessuno ha in realtà capito come dovrebbe funzionare. Ma il problema centrale non è questo, ma l’obiettivo del piano: mantenere in vita le banche e, con loro, il sistema finanziario che ha portato alla situazione attuale. Il vero problema non sono i titoli tossici o i truffatori, ma il ruolo stesso che i mercati finanziari hanno sviluppato in questi anni.

 

Fin dagli albori del capitalismo ci si è accorti che il sistema finanziario è il tallone di Achille di un’economia. Il motivo è che, essenzialmente, uno scambio finanziario e’ sempre una scommessa, rischiosa, su eventi futuri: il prezzo di una azione salirà o scenderà? Il soldi che cedo in prestito mi saranno restituiti o no? La maggior parte degli esseri umani (ma, crucialmente, non tutti) si sentono rassicurati quando le loro opinioni sono ampiamente condivise da altre persone. Ora, il problema è che quando le opinioni riguardano i prezzi di qualche oggetto o servizio reale questo meccanismo è “virtuoso”, cioe’ auto-regolante, in quanto la domanda e l’offerta variano in modo opposto. Più gente vuole un certo bene, più sale il prezzo, facendo diminuire i potenziali compratori. Viceversa, una eccessiva offerta di un bene ne fa scendere il prezzo, stimolando la domanda. In ogni caso, il prezzo varierà verso il livello “giusto”, in cui domanda ed offerta si eguagliano, ed il valore tenderà a restare stabile.

 

I mercati per i prodotti finanziari sono, al contrario, “perversi” perche’ il meccanismo di formazione del prezzo spinge verso livelli infiniti, o infinitesimi, ma mai stabili. Consideriamo un titolo “puro”, trattato esclusivamente per speculazione. Più grande è il numero di persone che ritengono il prezzo troppo basso, più il prezzo salirà. Ma più sale il prezzo, maggiore sarà il numero di persone che si aspettano un ulteriore crescita del prezzo. La mentalità da “gregge” fa sì che le aspettative della massa si confermino da sole, smentendo chi, magari a ragione, ha opinioni diverse dalla maggioranza. L’unico freno alla perenne instabilità è di saldare il piu’ possibile i valori dei titoli finanziari a dei valori “fondamentali”, anche se incerti o definiti solo da una banda di valori. In presenza di un tale legame, quando il prezzo speculativo diventa troppo distante si innescherà la retromarcia, garantendo, se non la stabilita’, almeno un contenimento del prezzo. Se tale legame è tenue, lontano nel tempo e complicato da troppi fattori, le oscillazioni di prezzo saranno enormi ed instabili. Solo se i titoli finanziari, di qualsiasi natura, hanno una controparte reale forte, strettamente collegata, allora la componente virtuosa può avere la meglio su quella perversa, ed i mercati finanziari assolveranno correttamente il loro ruolo di distribuire i risparmi agli investimenti che danno maggiori garanzie.

 

Il problema del piano del governo americano è che perpetua l’idea che possa esistere un mercato finanziario composto per la maggior parte di titoli fantasma, con legami evanescenti rispetto a qualsiasi valore reale. Il piano fallirà perché con l’attuale umore degli operatori, scottati da perdite enormi e nel mirino di un’opinione pubblica infuriata, difficilmente si potrà raccogliere un “gregge” sufficiente a spingere verso l’alto i prezzi dei titoli tossici. Ma il male peggiore sarebbe che il piano avesse successo, permettendo all’architettura finanziaria attuale di sopravvivere. In questo caso il settore finanziario continuerebbe a speculare con titoli artificiali, corrompendo i bilanci aziendali con valori arbitrari, e sottraendo risorse al sistema economico reale.

 

Quello che deve accadere per uscire dalla crisi è che il settore finanziario torni al suo limitato, ma fondamentale, ruolo di distributore di risorse dai risparmiatori a chi necessita credito. Per fare questo è necessario che gli unici titoli trattati siano direttamente legati alle attività degli operatori reali. Azioni ed obbligazioni, mutui, prestiti diretti ad aziende (reali!), etc. hanno un chiaro significato, ed ogni accenno di spirale di un prezzo sara’ immediatamente stroncato dai limiti imposti del sottostante valore reale.

 

Per fare questo è necessario spazzare via la cultura finanziaria che ha prodotto lo sfacelo attuale, non punteggiare le istituzioni che l’hanno prodotta. Fra l’altro, il processo sarebbe molto più semplice, usando i normali meccanismi di gestione dei fallimenti. Una azienda dichiarata in bancarotta ha un potere negoziale molto forte nei confronti dei creditori, evitando, ad esempio, che siano onorati i debiti al 100% del valore. Riconoscendo che la maggior parte delle banche è in insolvente il governo potrebbe prenderne il controllo e gestire una fase ponte in modo appropriato. Le componenti direttamente in rapporto con i cittadini e le imprese potrebbero essere separate dalle parti speculative, continuando a lavorare con fondi propri, isolati dal “contagio” dei titoli tossici. Questi ultimi sarebbero di più facile gestione, dato che la maggior parte riguarda contratti tra le imprese finanziarie stesse, e quindi si potrebbe annullare il grosso del capitale “marcio”, anche senza problemi di determinazione dei prezzi, e resterebbe da gestire solo i valori “marginali”, in eccedenza. In una seconda fase il governo potrebbe rimettere sul mercato le imprese finanziarie ripulite, assicurandosi che nessuna superi le dimensioni tali da poter generare un rischio sistemico. Inoltre, si stimolerebbe la creazione di nuove banche, stimolate dalla disponibilita’ del governo a ritirarsi il prima possibile dal ruolo di imprenditore finanziario. Il tutto andrebbe concluso da una robusta legislazione anti-trust, che impedisca il ritorno di livelli di concentrazione attuali, e di regolamentazione finanziaria che vigili sulla onestà degli operatori e fondatezza degli strumenti utilizzati.

 

Nelle tre decadi passate ci si è illusi che i mercati finanziari fossero fonte di ricchezza propria. La finzione è durata a lungo, finché le truffe, legali e non, hanno permesso di mascherare il danno prodotto. L’ampiezza della crisi rende sia necessaria che possibile la fondazione di una nuova struttura finanziara, pensata al servizio del sistema reale, e non, come e’ stato finora, come alternativa ad esso.

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Commenti

Risposta al commento

Ringrazio le autrici per il commento, e rispondo ribadendo, spero con maggiore chiarezza, le posizioni espresse nell'articolo.

La tesi del contributo, almeno nelle intenzioni, e' composto da due parti: cosa l'amministrazione americana dovrebbe ottenere, e come fare a raggiungere l'obiettico. In due parole, il cosa consiste nel ridimensionare il settore finanziario alla sua originale funzione di allocatore di risparmio, ruolo che e' stato marginalizzato negli ultimi anni, trasformando gli enti finanziari in generatori di ricchezza (di carta). Il come, si suggerisce, e' attraverso un processo di liquidazione delle posizioni esistenti interne al sistema finanziario, guidato dal governo, e finalizzato alla salvaguardia dei rapporti creditizi con istituti reali.

La critica delle autrici si concentra, mi pare, soprattutto sul secondo aspetto, sostenendo che permettere il fallimento di importanti istituti finanziari travolgerebbe la fiducia dei risparmiatori, eliminerebbe una quota consistente di reddito, ed, in ultima analisi restringerebbe ulteriorimente il credito. In realta' credo che questo scenario apocalittico sia, con buona approssimazione, gia' realizzato, tranne per la paventata corsa agli sportelli dei risparmiatori ed il richiamo dei crediti gia' concessi. Questo, che sarebbe effettivamente un drammatico peggioramento, potrebbe essere evitato con la infusione di risorse specifiche finalizzate al mantenimento dei rapporti finanziari con il sistema reale.

Se le misure suggerite siano percorribili o meno, puo' essere discusso in sede tecnica, ma, in ogni caso, l'aspetto centrale dell'articolo non era tanto il ``come'', ma il ``cosa'' l'amministrazione americana dovrebbe cercare di raggiungere. A questo riguardo il commento non chiarisce in che misura l'articolo non risulta convincente. La mia tesi fondamentale e' che il settore finanziario, divenuto una fonte di reddito ``primaria'', rende instabile tutto il sistema economico, e va riportato al ruolo di allocatore di risorse. Tale rilevante ruolo necessita, e merita, una adeguata compensazione in termini di commissioni e differenziali tra tassi di interesse. Il problema e' che il sistema finanziario si e' trasformato in una fonte di reddito (virtuale) mediante la creazione di titoli con valore puramente astratto, appopriandosi di una quota di profitto del sistema economico enormemente maggiore della semplice remunerazione dei servizi di allocazione e gestione.

La regolamentazione dei mercati finanziari, promossa nel commento, deve sicuramente essere rafforzata, ma ha bisogno di principi che, al momento, non esistono o hanno mostrato la loro assoluta inadeguatezza. Non sono state le truffe dei sub-prima, Medoff, etc. a far fallire l'intero sistema finanziario, ma una miriade di operazioni perfettamente legali portate avanti per decenni ed approvate da tutte le autorita' competenti. Il problema e' che non e' possibile regolamentare giganti con enormi poteri finanziari, tecnologici, di competenze tecniche e legali (nonche' di lobbying politico) senza avere dei saldi principi cui fare riferminento. L'articolo propone di ispirare questi principi alla ``distanza'' di un qualsiasi titolo finanziario con la sua controparte reale (un'opinione simile, con ben altra autorita' ed argomentazioni, e' espressa da Krugman in un recente intervento, http://www.nytimes.com/2009/03/27/opinion/27krugman.html). L'idea di fondo e' che andrebbero distinti i servizi finanziari fondamentali al sistema da quelli speculativi. I primi andrebbero fortemente vincolati, regolamentati e garantiti dallo stato, operando esclusivamente in rapporti con famiglie ed imprese. I secondi andrebbero relegati ad operatori senza alcun impatto sistemico, e quindi, ad esempio, gli dovrebbe essere vietati rapporti con fondi pensione, banche commerciali, etc.

Commento su articolo di Marco Valente su "Crisi, finanza, Geithner, Usa"

L'autore afferma che gli obiettivi di salvare il sistema finanziario ed insieme le istituzioni finanziarie sono diversi ed in conflitto fra di loro e che il governo americano dovrebbe occuparsi solo del primo obiettivo.
Continua argomentando che da un lato il sistema finanziario deve ritornare a livelli più contenuti e alla sua principale funzione (intermediare fondi fra risparmiatori ed investitori e, in questo modo, restare ancorato alle esigenze dell'economia reale); dall'altro, si deve acconsentire al fallimento delle banche. IL meccanismo del fallimento consentirebbe di spazzare via molto velocemente quella cultura finanziaria che ha prodotto i danni principali evidenziati dalla crisi e consentirebbe inoltre ai governi di prendere il controllo delle banche per procedere al loro risanamento.

Secondo noi tali affermazioni non sono condivisibili.
Innanzitutto perchè - come dimostra quello che è accaduto - anche in assenza di procedure di fallimento, i governi hanno già acquisito nella maggioranza dei casi il controllo delle banche più colpite dalla crisi, per fronteggiare la situazione di totale sfiducia che da un certo momento in poi si era determinata sui mercati interbancari.

Se si accetta di mandare in fallimento le banche (ed in assenza o limitatezza di schemi di garanzia dei depositi) ciò che succede è che : 1) si accresce la crisi di panico e di sfiducia con una corsa agli sportelli a livello sistemico 2) è molto più difficile e costoso recuperare la fiducia dei mercati 3) si determina un credit crunch molto più intenso (non solo non si produce nuovo credito ma anche quello già erogato deve essere richiamato) 4) l'effetto sui patrimoni gestiti dei fondi fra cui i fondi pensione è devastante.
Un'ulteriore rilevante conseguenza derivante dall'accettare i fallimenti delle banche sta nel fatto che la crisi sarebbe pagata dagli azionisti molto più di quanto accadrebbe in assenza di liquidazione. E forse è proprio questa ultima considerazione ciò che porta l'autore a sostenere la necessità dei fallimenti.
In realtà, la posizione dell'autore appare molto legata al pensiero liberista che attribuisce al mercato la capacità di selezionare fra i buoni e i cattivi, assicurando il migliore funzionamento del mercato. In realtà è proprio questa la motivazione sottostante alla crisi: aver lasciato una parte del mercato libero di agire (il riferimento è agli hedge funds da un lato e all'innovazione finanziaria dall'altro).
I mercati e i soggetti che operano sugli stessi mercati vanno regolamentati - ovviamente a livello gloable per evitare arbitraggi regolamentari - e non si può lasciare come unica via di uscita la liquidazione (con i costi che comporta anche per collettività) richiamando fra l'altro il ruolo del governo solo a valle di procedure fallimentari.

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