Viviamo una crisi di domanda, non di offerta: ristagnano consumi, investimenti e spesa pubblica. Perciò non basta ridurre i costi per rilanciare la produzione
“The pain is producing results” è l’ormai celebre frase del neo-ministro dell’economia Padoan, pronunciata quando era ancora chief economist dell’Ocse. Non si tratta solo di una gaffe che denota scarso rapporto con le condizioni di vita delle persone che hanno subito le scelte di politica economica europea, ma, soprattutto, di un’affermazione errata. Le politiche di austerità sono motivate da un’interpretazione ideologica delle cause della crisi, che, nonostante le critiche, ancora oggi sottovaluta il ruolo giocato dalla contrazione della domanda.
L’accento nostrano sulle “riforme strutturali”, anche se generalmente privo di complementi di specificazione, sottende lo stesso approccio: si ritiene che il rilancio dell’economia avverrà grazie a politiche dal lato dell’offerta, ovvero una riduzione dei costi per le imprese. Questo è quello che recentemente dà mostra di ritenere anche Hollande, quando dichiara che il problema centrale della Francia è produrre di più: sarà poi l’offerta a creare domanda. Così, Hollande ripropone la cosiddetta “Legge di Say”, secondo cui, grazie alle forze di mercato, l’offerta è sempre in grado di creare una sufficiente domanda corrispondente. Questo, però, è proprio il principio che entra in crisi in un periodo di recessione e la cui critica era già stata mossa in modo sostanziale da Keynes, osservando ciò che avvenne durante la Grande Depressione del 1929: la flessibilità di prezzi, salari e tassi di interesse, non garantì affatto la piena occupazione in presenza di una domanda troppo bassa.
Ma torniamo ai giorni nostri. Che esistano problemi anche dal lato dell’offerta è indubbio, ma l’esplosione delle difficoltà economiche verificatesi dal 2008 in avanti sono di altra natura. Quella che viviamo è una crisi di domanda, non di offerta: la produzione è stagnante perché la domanda non cresce, non crescono i consumi privati, non crescono gli investimenti, non cresce la spesa pubblica. Non basta ridurre i costi per rilanciare la produzione finché le imprese non si aspetteranno un nuovo aumento delle possibilità di vendere i loro prodotti. A commento della frase di Hollande, un breve articolo di Francesco Saraceno (http://keynesblog.com/2014/01/16/jean-baptiste-hollande/) analizza i dati di un’indagine dell’istituto di statistica francese che censisce le difficoltà dichiarate dalle imprese francesi: il numero di imprese che dichiara di far fronte a problemi di offerta non cambia sostanzialmente durante la crisi, mentre l’andamento della crisi è accompagnato di pari passo da aumenti nel numero di imprese che dichiarano di subire un calo della domanda. Segnali molto chiari che le politiche pubbliche debbano orientarsi a sostenere la domanda arrivano inoltre dalle stime al rialzo del moltiplicatore fiscale (l’effetto sulla domanda della politica fiscale) da parte del Fmi. Anche la bassa e decrescente inflazione nell’Eurozona (0,8% a inizio 2014) porta alla stessa conclusione: se lo shock fosse stato dal lato dell’offerta, avremmo osservato al contrario un aumento dell’inflazione (per un approfondimento: http://www.ceps.eu/book/yes-it%E2%80%99s-economy-stupid-it-demand-or-supply ).
Quali sono le politiche considerate pro-crescita che dovrebbero accompagnare l’austerità, secondo gli attuali fautori di misure supply-side? Principalmente la riduzione del costo del lavoro, terreno in cui le istituzioni europee si stanno esprimendo molto più di quanto prevedesse il loro iniziale mandato. Un esempio è l’Euro Plus Pact del 2011, che illustra bene come l’Unione creda nell’ “eliminazione delle rigidità verso il basso dei salari” come mezzo per ristabilire competitività e sanare gli squilibri interni. Gli strumenti indicati sono principalmente riduzione dei salari minimi e di quelli del settore pubblico e depotenziamento della contrattazione collettiva. Il risultato è stata la riduzione dei salari reali tra il 2010 e il 2012 in 18 Paesi dell’Unione, che non ha però riequilibrato i divari interni in termini di competitività, e ha invece acuito la recessione nei Paesi del sud (Osservatorio Sociale Europeo, 2013).
Un’altra domanda legittima è: perché, quando si parla di ridurre i costi per le imprese, si fa esclusivamente riferimento al fattore lavoro? Il costo del capitale e l’accesso al credito sono vincoli altrettanto se non più stringenti per l’attività delle imprese, in particolare durante una crisi in cui la restrizione del credito (il cosiddetto credit crunch) ha giocato un ruolo fondamentale. Nonostante le operazioni di rifinanziamento delle banche, la maggior liquidità non si è tradotta in un aumento dei prestiti concessi per due principali ragioni: la volontà del sistema bancario di accumulare riserve per affrontare eventuali altre crisi o svalutazioni di crediti e titoli in suo possesso; la riduzione dell’importanza delle attività di credito a famiglie e imprese sul totale delle attività delle banche. Infatti, nel marzo 2012 queste attività non rappresentavano che il 28% dei bilanci delle banche europee (dal Rapporto Likkanen per la Commissione Europea).
Inoltre, le disparità all’interno dell’area Euro in termini di tassi di interesse sono enormi e insostenibili per un’unione monetaria. A fronte di questo problema, i fautori del rigore macroeconomico hanno sostenuto che sarebbe stato il rigore dei bilanci pubblici a riequilibrare i divari nei tassi di interesse. Anche questo è stato, però, smentito dalla realtà: ciò che ha ridotto i famosi spreads è stato l’annuncio da parte della Bce del settembre 2012 di disponibilità illimitata all’acquisto di titoli dei Paesi membri per sostenerne il corso sul mercato secondario, come sottolineano gli economisti Paul De Grauwe e Yuemei Ji (http://www.voxeu.org/article/panic-driven-austerity-eurozone-and-its-implications). Questo non è stato invece dovuto a un’effettiva riduzione dei rapporti debito/PIL che continuano invece a crescere, proprio in conseguenza delle misure di austerità, primo fra tutti in Grecia, e a seguire in Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia.
A queste considerazioni va aggiunto il danno causato dalle politiche di austerità sulla capacità produttiva e quindi sulla stessa offerta: ossessionate dai possibili problemi legati alla sostenibilità del debito pubblico nel lungo periodo, le classi dirigenti, in particolare europee, hanno drammaticamente sottostimato le ripercussioni di una prolungata recessione indotta dalle stesse politiche fiscali restrittive. A fronte di un’economia in calo o stagnante, economisti della Fed (http://www.imf.org/external/np/res/seminars/2013/arc/pdf/wilcox.pdf), stimano a circa il 7% il mancato incremento della produzione, nel caso americano, dove lo stimulus package dell’American Recovery and Reinvestment Act è risultato insufficiente a controbilanciare lo shock del crollo finanziario. La perdita di Pil potenziale è dovuta, in parte, all’uscita dal mercato del lavoro dei cosiddetti scoraggiati o il reimpiego dei neodisoccupati in una mansione meno qualificata e remunerata e, in secondo luogo, ai mancati investimenti promossi da imprenditori che, a fronte di una domanda ferma e impianti sottoutilizzati, hanno rinunciato a sostituire macchinari usurati, rimandato il lancio di nuovi prodotti o posposto l’apertura di nuove imprese. Realisticamente in Europa, dove politiche fiscali restrittive sono state applicate con più zelo, il danno inflitto potrebbe essere ancora maggiore.
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