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Chiediamo conto delle tante Taranto

05/08/2012

«C’è sempre qualcuno, camorrista o semplice cittadino, che ha pensato al denaro più che alla salute, anche perché il denaro si prende subito, le malattie arrivano più lentamente». il manifesto ha pubblicato il 29 luglio un testo di Franco Arminio che contiene la frase che precede.

Essa cerca di spiegare la situazione dell’Ilva di Taranto e le scelte conseguenti. Il dilemma – salute o salario? – di cui molto si è scritto, per lo più è già sciolto prima ancora di essere messo in discussione. Chi lavora in fabbrica, lo fa per motivi molto forti che superano tutto il resto. Primo fra tutti è la paga. Spesso non manca una sorta di orgoglio per il proprio ruolo, per l’identità che ne deriva, che spinge a fare il proprio lavoro nel modo migliore che sia possibile. Quando poi si tratti di un lavoro come quello della siderurgia, con la formidabile colata che, al comando dell’operaio, insieme agli altri compagni, trasforma davvero la natura della cosa, allora è anche più difficile tirarsi via.

In siderurgia, come in tanti altri settori, si è molto colpiti dall’ingiustizia. Il sapere che il padrone paga di più una fatica di un’altra, a pari orario, con uguale pericolosità, diventa spesso una questione dirimente, un obiettivo della lotta. Altri operai del gruppo Riva in Europa hanno trattamenti migliori, guadagnano di più, hanno orari più convenienti. E insieme all’esigenza di verificare se è vero, scatta il desiderio di equità che spesso vale anche in difesa dei compagni di lavoro lontani e più sfavoriti. Questa coscienza operaia mette in dubbio l’efficacia della convinzione padronale di una concorrenza generale da utilizzare sempre e comunque per dividere chi lavora da chi lavora, annunciare l’uso di crumiri, lontani anche cinquemila chilometri, spaventare operai e sindacati, descrivendo un competitore affamato e disposto a tutto. In tema di salute e ambiente, tale minaccia è davvero sordida e intollerabile.

In ogni caso, una gara per l’acciaio tra chi chiede di meno, o meglio tra chi si serve di operai più docili e a prezzi scontati deve essere indicata come illegale. Non si può, il capitalismo globale non può avere modo di scegliere tra siderurgia cinese, gravata del viaggio per mare e siderurgia europea e in particolare italiana. Sono proprio le questioni ambientali che rientrano in gioco. Il prodotto che arriva dall’esterno ha davvero tutte le caratteristiche ambientali e sanitarie che un sensato regolamento europeo – italiano a maggior ragione – rende obbligatorio, senza se e senza ma? Anni fa Francuccio Gesualdi del movimento pisano «Centro nuovo modello di sviluppo», aveva proposto una legge che imponeva alle merci, soprattutto alimentari, una targhetta con tutte le specifiche sull’origine, le caratteristiche produttive, il non uso di minori. Noi dell’Europa potremmo chiedere conto della sindacalizzazione dei lavoratori cinesi o indiani, o brasiliani, delle loro condizioni di lavoro, dei loro orari e salari; sarebbe un’attività politica e sociale molto utile per il caso-Taranto e tanti casi consimili; e anche in Cina, in India e in Brasile, tra qualche tempo, ce ne sarebbero grati.

apparso su il manifesto del 5 agosto 2012

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Commenti

Un film che si ripete

Quello che sta succedendo nel settore dell'acciaio all'Ilva di Taranto è un film che si ripete e si ripeterà in tanti altri settori industriali del nostro paese. La siderurgia di basso consumo ma in massima parte anche degli acciai speciali è caratterizzato da bassi margini e competizione con paesi a basso costo della manodopera fin troppo basso), basso costo dell'approvvigionamento energetico e scarsa se non nulla attenzione all’ambiente e alla sicurezza sui luoghi di lavoro e quindi in genere nell'assenza di costi legati alla produzione di inquinamento.
In un tale contesto la sopravvivenza della produzione di acciaio europea ed in subordine italiana in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione con l’obiettivo più che di massimizzare il profitto già soltanto di generarlo appare assai arduo. Il ricavo totale per il produttore d’acciaio europeo e quindi italiano deve coprire anche i costi legati all’ambiente e alla sicurezza sui luoghi di lavoro che in un settore del genere costituiscono una quota per niente trascurabile. A cio va aggiunto l'assenza pressocchè totale di protezione del settore da parte della Comunità Europea e quindi la totale esposizione dei produttori interni ai prezzi praticati nel mercato globale dove vince chi paga meno per produrre!
Fatta questa premessa appare chiaro che quanto è accaduto all'Ilva di Taranto è una catastofe quasi annunciata se aggiungiamo poi anche la presenza di imprenditori senza scupoli la frittata è fatta.
C'è poco da fare o si decide di abbandonare questo settore industriale a mio avviso sarebbe una scelta scellerata o bisogna cominciare a pensare che occorre protezione (occorre ricominciare a pensare che esiste una domanda interna) perchè ormai così siamo fuori mercato e siccome ciò va fatto in ambito Europeo almeno finchè faremo parte dell'Unione e allo stato attuale non risulta una cosa tanto veloce ne facile tanto vale nel frattempo nazionalizzare l'Ilva.
Purtroppo questo sarà il destino di molti settori produttivi del nostro paese e non solo il nostro sopratutto nell'ambito delle produzioni a bassa specializzazione ma anche in quelle ad elevata specializzazione dove non solo in maneria folle stiamo tagliando la ricerca e continuando ad esportare know how ma dove non bisogna trascurare che anche le altre economie a recente industrializzazione stanno cominciando ad investire e progredire nella ricerca ed in termini di industrializzazione godono dei vantaggi dell'ultimo arrivato per cui anche in questi settori il gap è destinato a scomparire col tempo.

Un film che si ripete

Quello che sta succedendo nel settore dell'acciaio all'Ilva di Taranto è un film che si ripete e si ripeterà in tanti altri settori industriali del nostro paese. La siderurgia di basso consumo ma in massima parte anche degli acciai speciali è caratterizzato da bassi margini e competizione con paesi a basso costo della manodopera fin troppo basso), basso costo dell'approvvigionamento energetico e scarsa se non nulla attenzione all’ambiente e alla sicurezza sui luoghi di lavoro e quindi in genere nell'assenza di costi legati alla produzione di inquinamento.
In un tale contesto la sopravvivenza della produzione di acciaio europea ed in subordine italiana in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione con l’obiettivo più che di massimizzare il profitto già soltanto di generarlo appare assai arduo. Il ricavo totale per il produttore d’acciaio europeo e quindi italiano deve coprire anche i costi legati all’ambiente e alla sicurezza sui luoghi di lavoro che in un settore del genere costituiscono una quota per niente trascurabile. A cio va aggiunto l'assenza pressocchè totale di protezione del settore da parte della Comunità Europea e quindi la totale esposizione dei produttori interni ai prezzi praticati nel mercato globale dove vince chi paga meno per produrre!
Fatta questa premessa appare chiaro che quanto è accaduto all'Ilva di Taranto è una catastofe quasi annunciata se aggiungiamo poi anche la presenza di imprenditori senza scupoli la frittata è fatta.
C'è poco da fare o si decide di abbandonare questo settore industriale a mio avviso sarebbe una scelta scellerata o bisogna cominciare a pensare che occorre protezione (occorre ricominciare a pensare che esiste una domanda interna) perchè ormai così siamo fuori mercato e siccome ciò va fatto in ambito Europeo almeno finchè faremo parte dell'Unione e allo stato attuale non risulta una cosa tanto veloce ne facile tanto vale nel frattempo nazionalizzare l'Ilva.
Purtroppo questo sarà il destino di molti settori produttivi del nostro paese e non solo il nostro sopratutto nell'ambito delle produzioni a bassa specializzazione ma anche in quelle ad elevata specializzazione dove non solo in maneria folle stiamo tagliando la ricerca e continuando ad esportare know how ma dove non bisogna trascurare che anche le altre economie a recente industrializzazione stanno cominciando ad investire e progredire nella ricerca ed in termini di industrializzazione godono dei vantaggi dell'ultimo arrivato per cui anche in questi settori il gap è destinato a scomparire col tempo.

esiste anche il commissario alla concorrenza dell'unione europea

ragozzino scrive un ottimo articolo, ma, come spesso accade agli intellettuali italiani di sini
stra, totalmente astratto dalla realtà. L'azione che indica è giusta, ma manca l'indicazione del soggetto che la deve fare. Il sindacato riceve dei contributi dai lavoratori e anche dallo stato per difenderli, ma dopo 56 anni non si è ancora accorto che esiste l'europa, che ha dei poteri e che li esercita su istanza dei cittadini. E' mai successo che un sindacato si sia rivolto alla commissario europeo della concorrenza per chiedere tutela contro il dumping della salute praticato dai paesi in via di sviluppo? e allora si dia una svegliata, apartire dalla FIOM che discute se fare o no la quarta confederazione anzichè occuparsi del suo compito

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