I problemi finanziari, la strategia di espansione, il ruolo dei governi (degli altri). Come la Fiat avvia una nuova delocalizzazione: verso i paesi ricchi
La crisi ha colpito duro anche la Fiat a partire dalla seconda metà dell’anno scorso: le vendite sono drasticamente calate in ogni aree geografica e in ogni settore di business, i profitti sono scomparsi, fino a tramutarsi in una perdita di quasi 500 mln di euro nel primo trimestre del 2009, l’indebitamento finanziario è esploso fino a 24 mld alla fine di marzo.
Come sempre avviene nei momenti di difficoltà, i criteri di formazione del bilancio diventano meno trasparenti e si realizzano operazioni aventi l’unico obiettivo di trasferire risorse finanziarie all’interno del gruppo; è il caso, ad esempio, della valutazione al costo storico della azioni proprie in portafoglio (pari ad oltre il 3 per cento del totale di quelle emesse), pagate in media oltre 17 euro l’una ma che quotano in borsa assai meno della metà o della vendita da parte della capogruppo ad un’altra società del gruppo del marchio Fiat per 800 mln di euro. Nel primo caso nel bilancio individuale e consolidato non sono state iscritte minusvalenze per oltre 300 mln di euro mentre la seconda operazione ha consentito di iscrivere una consistente plusvalenza nel bilancio individuale e l’afflusso di risorse finanziarie alla capogruppo utili per rimborsare parte dei finanziamenti in scadenza.
Malgrado le evidenti attuali difficoltà, la società appare la realtà più dinamica nel panorama mondiale automobilistico e forse non solo di quello: di fronte a questa apparente incoerenza sorgono spontanee alcune domande su come sia possibile tutto questo e se l’attivismo del management non nasconda qualcos’altro.
Ricapitoliamo brevemente i fatti. Con l’Amministrazione americana la Fiat ha firmato un accordo per assumere il controllo industriale della società Chrysler dalla cui procedura fallimentare rileverà parte dei siti produttivi ed altre attività a fronte del conferimento delle tecnologie di prodotto e di processo delle nuove auto da produrre negli Stati Uniti e in Canada. L’intesa prevede che la Fiat abbia una quota iniziale del 20 per cento del capitale e delle opzioni di crescita esercitabili al raggiungimento di prefissati obiettivi pubblici. Per supportare il progetto l’Amministrazione erogherà svariati miliardi di dollari di finanziamento. In cambio di una quota inizialmente maggioritaria della società, i sindacati hanno acconsentito ad una riduzione del salario e alla rinuncia dei crediti pensionistici.
Nell’attuale scenario di crisi epocale, sia finanziaria sia ecologica, l’Amministrazione americana ritiene indispensabile l’avvio di una drastica ed immediata riconversione del modello di consumo e di sviluppo dell’attività produttiva che consenta una pluralità di obiettivi:
- la riduzione dei consumi energetici e delle emissioni nocive per il pianeta,
- il riavvio dell’attività produttiva nazionale con prodotti di elevata qualità da vendere nel mercato domestico e nel resto del mondo,
- il miglioramento del saldo dell’interscambio commerciale, e soprattutto la riduzione del debito con gli altri Paesi del mondo (in primo luogo Cina e Giappone, ma anche Germania).
In tale quadro il management della Fiat è stato in grado di proporsi come il partner capace di traghettare velocemente parte della produzione automobilistica americana verso i nuovi orizzonti delineati da Obama. Ma qui sorge spontanea la domanda: come è stato possibile ricevere questo attestato di credibilità per una società che è uscita da una recente drammatica crisi economica e finanziaria e oggi si trova nuovamente in una situazione non del tutto soddisfacente ?
E’ vero: gli ultimi dati relativi alle immatricolazioni di autovetture in Europa sono molto positivi per il gruppo torinese (ad aprile la quota di mercato della Fiat ha toccato il 10 per cento, un livello che non aveva da decenni), ma il successo della 500 non può spiegare da solo la posizione del governo statunitense. Va inoltre considerato che il recente successo commerciale è a sua volta il frutto dell’immagine vincente della società riveniente dalla partita americana.
Il punto di forza della Fiat Auto si trova essenzialmente nell’essere uno dei pochi global player mondiali nel settore automotoristico capace di avere una visione sistemica e di saperla gestire nel medio lungo periodo. La gamma prodotti, le tecnologie presenti nelle piattaforme e nei motori e negli altri sottosistemi meccanici, i materiali impiegati, sono il frutto di scelte di parecchi anni addietro che sembrano aver aver trovato conferma nelle più recenti politiche di investimento. In particolare le linee di sviluppo dei motori hanno privilegiato la semplicità strutturale e l’affidabilità di funzionamento nonché il contenimento dei consumi e delle emissioni nocive rispetto ad un aumento delle potenze erogate, ormai inutili per garantire soddisfacenti livelli di prestazioni.
Ai consolidati motori diesel multijet e a quelli a doppia combustione (benzina e metano o GPL) si stanno affiancando i motori multiair a benzina e soprattutto è in fase di sviluppo un piccolo motore ibrido per le city car che dovrebbe portare notevoli risparmi di carburante nel prolungato impiego dell’auto nei percorsi stop and go tipici delle città.
La Fiat è poi in trattativa con la stessa Amministrazione americana e con lo stato tedesco per rilevare dalla General Motor, l’industria di maggiori dimensioni nel mondo in termini di occupati in situazione prefallimentare, le attività europee (Opel e Saab) e soprattutto quelle sudamericane. Anche in questo caso la contropartita non sembra finanziaria ma di prospettive industriali e occupazionali. Gli americani sembrano infatti interessati a mantenere un ruolo decisionale nella nuova impresa, lo stato tedesco si preoccupa del mantenimento dei siti produttivi locali e dei preesistenti livelli occupazionali.
Con questa operazione la Fiat potrebbe allargare significativamente la scala produttiva concentrando velocemente la produzione negli stabilimenti con la maggiore produttività e qualità, con evidenti benefici in termini sia di costi sia di prodotto. E’ chiaro che questa prospettiva richiede lo spostamento di linee di produzione e la chiusura delle realtà meno efficienti per le quali non siano stati stanziati adeguati contributi pubblici; è altrettanto evidente che il downsizing riguarderà essenzialmente la maggior parte degli stabilimenti del nostro Paese; la ricaduta sul tessuto produttivo inevitabilmente si estenderà all’indotto, soprattutto di quello delle piccole e medie imprese locali.
In Italia, a Torino in particolare, rimarrà, almeno per un certo periodo, il centro direzionale del gruppo, alcuni processi di sviluppo del prodotto e lo stabilimento di Mirafiori per mantenere i vantaggi della vicinanza tra progettazione e produzione. Tuttavia, se il progetto di internazionalizzazione della Fiat risulterà vincente nel lungo periodo, verrà naturale prendere in considerazione l’ipotesi di trasferire in altri paesi anche la testa della catena di comando e di sviluppo.
Il dinamismo della Fiat sembra in definitiva apprezzabile a livello societario perchè capace di cogliere rapidamente le opportunità offerte dalle politiche industriali messe in cantiere dai paesi sviluppati (Stati Uniti e Germania in particolare) utilizzando i punti di forza presenti nel portafoglio prodotti del gruppo.
La scommessa della Fiat sembra peraltro presupporre un ulteriore declino del ruolo internazionale del nostro Paese e un calo dei livelli produttivi italiani della nostra più importante industria. Rileva in questo quadro la totale assenza dello Stato, incapace di presentare alcuna credibile politica industriale favorevole al mantenimento degli insediamenti produttivi. Dopo la delocalizzazione verso i paesi meno sviluppati delle attività labour intensive sembrano esserci tutte premesse per assistere alla delocalizzazione delle poche attività tecnologicamente avanzate ancora rimaste, questa volta verso i paesi più sviluppati.
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