Per sostenere la crescita, serve aumentare la produttività e la mobilità sociale, puntando sul sistema educativo e sulla formazione
Il recente dibattito su crescita e occupazione si è focalizzato quasi esclusivamente sui temi delle liberalizzazioni di mercati e professioni e della riforma del mercato del lavoro. Una vasta evidenza empirica mostra, tuttavia, come l’effetto di queste riforme sia tutt’altro che garantito. Mentre in generale le liberalizzazioni e la riduzione delle barriere all’entrata hanno portato incrementi di produttività e occupazione nei paesi Ocse, tali riforme sono state molto più efficaci in alcuni paesi (nordici e anglosassoni) piuttosto che in altri (Europa continentale e mediterranea). Ancor meno incoraggiante è l’evidenza empirica sull’effetto delle riforme sul mercato del lavoro. Numerosi studi mostrano come gli indici di ‘protezione all’impiego’ costruiti dall’Ocse non incidano né sui livelli di occupazione, né tantomeno sulla dinamica della produttività[1].
L’utilità di queste riforme può essere semmai giustificata su basi differenti. Le varianti di contratto unico con tutele crescenti avrebbero, in effetti, due effetti positivi: 1) una riduzione sostanziale della cause di lavoro e dei costi amministrativi connessi; 2) una sacrosanta redistribuzione delle tutele tra insider e outsider. Per quanto riguarda le liberalizzazioni, invece, la pressione di una più forte concorrenza potenziale costringerebbe le imprese ad assumere meno per conoscenza e più per merito, riducendo in tal modo l’influenza del background famigliare sul successo personale.
Resta aperta la questione di come sostenere la crescita. Nel breve periodo, le riforme auspicate non sono per definizione efficaci, mentre è molto più urgente allentare la stretta creditizia sulle piccole e medie imprese, sostenere i redditi dei disoccupati e incentivare la creazione di lavoro spostando il peso fiscale su ambiente e rendite finanziarie. Nel lungo periodo, occorre formulare un piano per rilanciare la produttività favorendo produzioni tecnologicamente avanzate e ecologicamente sostenibili.
Il sistema educativo gioca un ruolo centrale in questo senso. Una vasta evidenza empirica mostra come crescita e mobilità sociale dipendano dalla qualità del sistema educativo. Le stesse riforme auspicate dal governo sono più efficaci in presenza di politiche complementari che favoriscano l’accumulazione di capitale umano e di politiche industriali mirate. I paesi scandinavi, ad esempio, hanno beneficiato fortemente delle nuove tecnologie dell’Information Technology (IT) grazie a forti investimenti in capitale umano generale ed a una più generale trasformazione del sistema educativo da un modello di tipo tedesco, che privilegia le competenze specifiche, a un modello misto con forti incentivi all’investimento in istruzione universitaria. E’ noto del resto che l’altro pilastro della flex-security è costituito dalla formazione continua in grado di agevolare l’adattamento delle competenze professionali ai cambiamenti tecnologici e di struttura produttiva.
Il sistema educativo getta anche le basi fondamentali della mobilità sociale, a tutti i livelli dato che i processi di apprendimento sono tipicamente cumulativi. In primis, l’istruzione pre-primaria può compensare situazioni famigliari difficili ed avviare un percorso di apprendimento adeguato negli anni considerati cruciali per la formazione delle capacità cognitive (si vedano i lavori del premio Nobel James Heckman). Assicurare a tutti una formazione pre-primaria adeguata è quindi fondamentale sia per la mobilità sociale che per la crescita. Lo stesso dicasi per i livelli formativi successivi: anche in questo caso, equità ed efficienza (nel senso di acquisizione di competenze) non sono in conflitto. Due miei lavori con Michele Raitano dimostrano che, a parità di condizioni, scuole più eterogenee in termini di background famigliare degli studenti sono in grado di assicurare maggiore equità nei risultati e non peggiorare i livelli di apprendimento medi[2]. Promuovere la diversità e l’eterogeneità nelle scuole è un esempio di politica a costo zero in grado di migliorare la qualità del sistema educativo e al contempo favorire la coesione sociale. Infine, l’istruzione universitaria. L’Italia è uno tra i paesi Ocse con il più basso numero di laureati e dove l’influenza famigliare sulla probabilità di laurearsi è più alta. La classica argomentazione a favore dello status quo punta il dito contro le imprese italiane, accusate di non domandare forza lavoro qualificata, piuttosto che sul lato dell’offerta. Trovo quest’argomento abbastanza paradossale: dato che in un’economia capitalistica le imprese si creano e si distruggono continuamente, un maggiore numero di laureati potrebbe sia attrarre imprenditori stranieri innovativi che favorire la creazione di nuove capacità imprenditoriali.
Ciò rende più chiaro il nesso esistente tra struttura di mercato e investimenti in capitale umano: una volta ridotte le barriere all’entrata, l’opzione più sensata per i policy-makers è favorire l’entrata di imprese innovative aumentando la probabilità che tali imprese trovino il capitale umano adeguato. Ciò richiede due tipi di interventi, già sperimentati in molti altri paesi. Primo, migliorare i meccanismi di governance e valutazione. Secondo, rendere davvero progressivo l’accesso all’università: i più abbienti pagano tasse più salate, i meno abbienti beneficiano di sussidi generosi che gli consentono di poter studiare senza dover lavorare. Le misure di lotta all’evasione introdotte dal presente governo consentirebbe di rendere fattibili ed realmente eque queste politiche. In questo modo, inoltre, l’incentivo ad impegnarsi aumenterebbe sia per i più abbienti, che dovrebbero pagare tasse più elevate, sia per i meno abbienti, i cui sussidi sarebbero condizionati ai risultati.
Queste politiche di rilancio del sistema formativo a partire dagli asili nido per finire all’università e alla formazione continua non sono certo a costo zero. Solo per mettere in piedi meccanismi di valutazione, i costi iniziali sarebbero molto elevati mentre i benefici spostati in avanti nel tempo. E lo stesso vale per il profilo di costi e benefici delle politiche educative dirette come le spese per gli asili nido o per i sussidi. I tagli folli ai bilanci pubblici e la regola aurea di pareggio di bilancio, imposti per “salvare” l’euro, non lasciano certo spazio per politiche pubbliche di questo tipo. Il rischio è non solo che la ripresa venga imbrigliata, ma soprattutto che le conseguenze diventino disastrose nel lungo periodo a causa del forte deprezzamento di competenze associato a disoccupazione e scoraggiamento. Riprendendo per analogia un’idea di Blanchard e Giavazzi[3], una mediazione tra la posizione oltranzista tedesca e una ben più sensata posizione keynesiana potrebbe essere quella di finanziare a livello comunitario solo alcuni investimenti pubblici sensibili: quegli investimenti che favoriscono insieme crescita e mobilità sociale. In particolare, investimenti in infrastrutture materiali (ad es. smart grid per energie rinnovabili, rafforzare il trasporto su rotaia) ed immateriali (conoscenza e capitale umano). In pratica, si tratterebbe di creare un budget comunitario, finanziato con gettito dei paesi membri e fortemente rimpinguato con l’emissione di eurobonds. Quest’intervento potrebbe essere rafforzato indicando linee guida. Ad esempio: scuole quanto più possibile eterogenee, ingresso all’università fortemente progressivo, formazione continua certificata in base a standard ben definiti, criteri di governance dell’università comuni.
[1]http://ideas.repec.org/p/epa/cepawp/2002-17.html e http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002558-351.html
[2]http://www.ofce.sciences-po.fr/pdf/dtravail/WP2011-17.pdf e http://www.ofce.sciences-po.fr/pdf/dtravail/WP2011-22.pdf
[3]http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/blanchardgiavazzi2002stability_pact.pdf
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