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Un piano Marshall per costruire l'Europa sociale

15/04/2014

Eurobond per finanziare la spesa pubblica europea. La proposta del sindacato tedesco, Dgb, al centro di un convegno a Bruxelles

In preparazione della manifestazione europea dei sindacati (il 4 aprile scorso), la fondazione Hans Böckler, legata al sindacato tedesco, insieme alle fondazioni Otto Brenner e Friedrich Ebert (fondazione della Spd) e al European Trade Union Institute, hanno organizzato il convegno “Creating a social Europe” a Bruxelles. Una parte della discussione ha preso le mosse dalla proposta di un “Piano Marshall per l’Europa” formulata dal sindacato tedesco Dgb, e in buona parte ripresa nella piattaforma comune della manifestazione del giorno successivo.

Il piano prende le mosse da alcune considerazioni: innanzitutto, che l’uscita dalla crisi e un progetto di sviluppo di lungo termine dell’economia europea vadano necessariamente insieme; in secondo luogo, che esista un gran volume di ricchezza in Europa che può e deve essere incanalato verso la ricostruzione della capacità industriale e la modernizzazione dell’economia europea; terzo, che la qualità di questa rinnovata capacità industriale sia cruciale: l’investimento deve essere orientato a settori che promuovono risparmio energetico, riduzione delle emissioni, occupazione di qualità.

L’importanza di questo piano è innanzitutto quella di provare a rimettere al centro della discussione europea la politica industriale, abbandonata a partire dagli anni ’80 a favore dell’idea che i mercati finanziari da soli avrebbero garantito l’allocazione delle risorse agli investimenti più efficienti. Questo approccio allo sviluppo non ha funzionato e la crisi del 2008 ha mostrato i pericoli della deregolamentazione dei mercati finanziari.

Non solo: tra le premesse del piano della Dgb c’è la critica all’attuale politica anti-crisi dell’Unione, che si fonda sull’abbassamento del costo del lavoro come strumento per riconquistare competitività: “continuare con queste politiche significa intensificare la spirale negativa di riduzione dei salari e aumento della povertà, che è già cominciata nei Paesi strutturalmente più deboli”. Pur senza riferimenti al contesto tedesco, si tratta di un’affermazione importante (ribadita nel corso della conferenza), dal momento che all’interno del sindacato tedesco il dibatto è intenso proprio sulle politiche di moderazione salariale del governo Merkel (negli ultimi 10 anni, i salari reali in Germania sono sensibilmente calati). Sul piano europeo, si tratta di una voce critica rispetto all’approccio neo-mercantilista che vorrebbe le economie europee trainate dalle esportazioni, mentre la domanda interna viene compressa da politiche di rigore fiscale e dalla stessa moderazione salariale.

Le aree di intervento del “Piano Marshall” sono innanzitutto gli investimenti nella riconversione energetica, a cui seguono investimenti nei trasporti - a partire da quelli municipali - nella banda larga e nella riduzione del digital divide, nello sviluppo del welfare sia pubblico che privato, nelle infrastrutture e nell’housing per le persone anziane, nella gestione sostenibile delle risorse idriche. Particolare accento è anche messo sugli investimenti in istruzione e formazione professionale, di cui si denuncia la riduzione a causa dei tagli ai bilanci pubblici.

Come deve essere finanziato e quanto? La proposta è di un piano di durata decennale per 260 miliardi di investimento ogni anno. La Dgb propone di finanziarlo principalmente attraverso la costituzione di un’agenzia pubblica europea (sotto il controllo del Parlamento) che raccolga fondi sul mercato finanziario emettendo titoli (“New Deal Bonds”) di durata decennale. Per finanziare la spesa per interessi legata a questi bonds, il programma propone l’introduzione nei Paesi membri di una tassa sulle transazioni finanziarie. Inoltre, per fare in modo che gli interessi siano tenuti bassi, si propone di aggiungere ai fondi propri il ricavato di una patrimoniale una tantum sui patrimoni sopra i 500.000 euro.

Sul finanziamento di un piano di questo tipo, si potrebbero aggiungere alcune opzioni che non sono presenti nella proposta, come un intervento diretto della Bce (o tramite l’emissione di Eurobond), oppure tramite la tassazione sulle imprese. Una delle priorità che sono anche emerse nella discussione, peraltro, è quella di contrastare la competizione su questo versante che è in corso tra Paesi europei: l’imposizione sulle imprese in media nei Paesi dell’Unione è scesa, negli ultimi 20 anni, di più di 10 punti percentuali.

La discussione si è a più riprese spostata sui Paesi del Sud Europa: sono Paesi in ripresa? La risposta è stata in larga parte pessimista, sia per ragioni specifiche dei Paesi in questione, sia per scelte politiche a livello europeo. L’Italia emerge come un Paese che ben rispecchia il fallimento di politiche di compressione salariale “per rilanciare la competitività” e il bisogno invece di ripartire da una solida politica industriale, indirizzata alla riconversione “verde” dell’economia e alla produzione di servizi alla persona e welfare. I salari reali sono in calo e il mercato del lavoro è sempre più precario (tendenza non invertita dal recente Jobs Act), ma questo non sta rappresentando un fattore di rilancio. Al contrario. Nonostante la quota dei profitti sul valore aggiunto sia più alta che negli altri Paesi europei, la produzione industriale è in calo (nel 2012 era del 25% inferiore ai livelli pre-crisi), dopo un decennio (gli anni 2000) in cui la dinamica della produttività in Italia ha registrato il peggior risultato dell’Unione Europea. La domanda centrale nel caso italiano è “dove vanno a finire questi profitti?”; in gran parte, in attività finanziarie, che non sono state ridimensionate dalla crisi, ma che non tornano all’economia reale come credito erogato dalle banche: Unimpresa rileva che tra gennaio 2013 e gennaio 2014, il totale dei finanziamenti al settore privato è diminuito di più di 36 miliardi di euro.

Il bisogno di riorientare le risorse dei mercati finanziari verso l’economia reale è infatti un altro tema che emerge dalla discussione, come si evince dalle proposte di finanziamento del Piano Marshall. Il recente accordo sul disegno di un’unione bancaria viene visto come un passo nella direzione giusta, ma ancora come uno strumento incompleto, soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti insufficienti al “fondo comune di risoluzione” e la tempistica della sua attuazione.

In generale, emerge l’esigenza di un “salto” di qualità nell’integrazione che sia indirizzato a un piano di rilancio di lungo periodo dell’economia dell’Unione, centrato sulla riconversione energetica e sulla qualità dell’occupazione. Molti ne traggono la conseguenza che questo significhi rimettere in discussione le politiche restrittive dell’Unione (come emerge dal testo del Piano Marshall), ma con gradazioni diverse. È eloquente l’intervento di Martin Schulz nel corso della mattinata del 3 aprile, che si apre con la triste constatazione che “oggi, l’Europa non è sociale” e che denuncia il bisogno di riequilibrare il trattamento delle persone e dei profitti, oggi squilibrato a vantaggio dei secondi. Al tempo stesso, però, alla domanda se sia possibile immaginare una soluzione della crisi del debito che utilizzi meccanismi di solidarietà a livello di Unione, anziché l’attuale estremo rigore di bilancio imposto agli Stati membri, il candidato socialista alla presidenza della Commissione, risponde “No”, perché “ne possiamo essere dispiaciuti”, ma nel Consiglio non ci può essere accordo su una proposta di questo tipo, e non solo a causa del governo tedesco.

 

 

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Commenti

Ma non chiamiamolo Piano Marshall!

Il Piano Marshall, di felice memoria, permise all'Europa - che usciva distrutta, nei suoi livelli di consumo e di capacità produttiva, al termine della Seconda Guerra Mondiale - di importare beni dagli Stati Uniti in forte eccedenza rispetto alle proprie esportazioni verso lo stesso paese, senza pagare la differenza. Un arricchimento dell'Europa, in termini di beni disponibili, a scapito degli Stati Uniti, in cambio di acquisizione di influenza politica dei secondi rispetto ai paesi dell'Europa Occidentale, in funzione anti-russa.
Nell'articolo in commento, non c'è nulla di tutto questo. L'Europa ha un grave problema di gestione macroeconomica, poiché persegue fini intermedi di stabilità finanziaria, anche a discapito dei corretti obiettivi finali di crescita e di equilibrata distribuzione (personale, funzionale e territoriale) del reddito al proprio interno. I beni ci sono, ma sono male allocati fra impieghi privati e impieghi pubblici e fra beni destinati a soddisfare bisogni interni all'Unione e beni destinati all'accumulazione di credito verso l'estero.
Volendo riferirsi al contesto nord americano (e pare che non se ne possa fare a meno!) direi che c'è bisogno di un nuovo New Deal!

è solo un problema di investimenti e politiche industriali?

Tendo a pensare che non siamo ancora riusciti/e a capire fino in fondo la crisi italiana che si inserisce in quella europea.
Dovremmo mettere a fuoco altri aspetti oltre a quelli macro. Credo stiamo scontando un'arretratezza culturale importante. Ne sono un esempio i dati dell'indagine europea Community Innovation, da dove emerge che l'italia è fanalino di coda circa modalità di lavorare basate su gruppi multidisciplinari o interfunzionali e job rotation. Inoltre le nostre imprese, grandi e piccole, non cooperano con altre imprese, a differenza di quanto avviene in Germania, Francia e nella media dell'UE. Non so se sia sufficiente fare investimenti in formazione e istruzione, visto che i formatori e docenti non sembrano spiccare per capacità innovativa, in una situazione da circolo vizioso perchè probabilmente le resistenze sono tali che anche chi vuole innovare fa fatica a trovare interesse per le proprie offerte formative. Chi fa ricerca ha la responsabilità di mettere in evidenza anche questi aspetti di tipo culturale-antropologico, affinchè non ci si illuda che investimenti e politiche industriali - che non affrontino i nodi culturali - siano sufficienti. A me pare che queste soluzioni siano tradizionali e rispecchino visioni a compartimenti stagni.

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