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La miopia di oggi, un rischio per il futuro

27/04/2012

Per creare nuovi posti di lavoro, serve uno sguardo d'insieme, che colga la scenario in cui siamo immersi e le trasformazioni già avvenute. O che stanno per avvenire

La ripresa, la crescita, e creare posti di lavoro. Per realizzare questi obiettivi è prioritario rendere competitiva l’economia. In questa fase dunque la competitività è al centro dell’agenda politica di tutti i paesi (lo si è visto, per fare un esempio, seguendo la campagna elettorale in Francia). Alle analisi e proposte che ci vengono fornite sarebbe utile affiancare considerazioni di scenario. Affrontare i molti aspetti che compongono il quadro mettendo appunto in luce i cambiamenti di contesto (che molto poco vengono presi in considerazione): alcuni già in atto, altri suggeriti da eventi del passato. Porto l’attenzione (con veloci riflessioni che, certo, andrebbero approfondite) sul terzo “obbiettivo”: creare di posti di lavoro. L’attenzione - in Italia come altrove - è rivolta prima di tutto alle “nuove generazioni” e in particolare alla drammatica mancanza di opportunità di lavoro. Numeri crescenti di giovani hanno per la prima volta accesso all’istruzione e si affacciano alla fase adulta con capacità e aspettative prima impensabili. In molte parti del mondo abbiamo visto mobilitazioni contro le strutture di potere e le istituzioni: per cambiare, per realizzare un futuro migliore. “Lavoro” vuol dire retribuzione e dunque acceso a beni essenziali, ma anche tutele, diritti, sicurezza; e i contesti, le relazioni, la qualità della vita quotidiana. Aspettative e aspirazioni che non si possono non condividere.

Ma ricordiamoci: siamo, a livello mondiale, sette miliardi. Il contesto è segnato da processi che non è sufficiente definire dicendo “migrazioni”: è forse più appropriato parlare di “mobilità”, facendo riferimento ai flussi in tutte le direzioni, e con differenti caratteristiche, che si presentano nello scenario globale. E ancora, nel quadro internazionale (appunto, competitivo): resistenze e chiusure, forme tradizionali - e altre nuove - di discriminazione; ed espliciti criteri di “selezione”. Va detto che, nelle notizie messe in circolo dai nostri media e anche nel nostro dibattito politico, quasi sempre la prospettiva è solo “italiana”. E’ un grave limite.

Un secondo riferimento: la produzione industriale è largamente meccanizzata, e lo sappiamo. Ma per i molti di noi che non le avevano abbastanza presenti, le condizioni attuali nelle fabbriche, le riprese che la televisione ha presentato nei mesi della “crisi” hanno fatto vedere uomini e donne a fianco di macchinari e congegni che - in parte almeno - sostituiscono lavoro umano.

Questo il contesto quotidiano, normale, di milioni. E non solo nel lavoro di fabbrica. Anche nel terziario strumenti e tecnologie oggi disponibili hanno portato a una riduzione della “componente umana”: minori i costi, tempi più rapidi, una maggiore efficienza complessiva. Possiamo osservarlo (se facciamo attenzione), in uffici postali, nelle banche, anche nei grandi magazzini. Meno impiegati agli sportelli rispetto a prima; alle casse dei supermarket si può pagare con dispositivi di vario tipo. Biglietti ferroviari e aerei, e altre pratiche, li facciamo via internet.

Introduco qui, per richiamare una varietà di processi che assai poco vengono analizzati in relazione ai problemi del lavoro e della disoccupazione, la parola robot. Qualcosa veniamo anche a sapere su applicazioni, appunto di robot, nelle imprese spaziali; ci appare utile l’uso crescente di “droni” in operazioni di guerra. Ma poca attenzione si rivolge, da noi, a innovazioni e politiche che in altri contesti sono centrali nella prospettiva del mercato del lavoro e dell’occupazione (in Giappone e in Corea del Sud si registrano le forme più avanzate della robotica; e menziono solo una recente notizia di stampa: in Cina un’impresa che ha oltre un milione di dipendenti prevede di utilizzare 300.000 robot entro il 2013, arrivando a un milione nel 2014). E’ semplice: i robot lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro, non si ammalano, non scioperano.

Processi che non potranno non diventare parte del nostro mondo e della nostra vita. Riduzione di costi, prestazioni migliori (anche in Italia, questo è stato segnalato, si è arrivati a risultati importanti in interventi chirurgici di alto livello applicando appunto la robotica). Sarebbe importante allargare lo sguardo, tenere sotto osservazione questi processi rispetto all’obiettivo di creare posti di lavoro.

E c’è un altro elemento sul quale portare l’attenzione. E’ il tema delle guerre. Non ci sono più le guerre che hanno segnato secoli della nostra storia: un dato fondamentale della fase in cui viviamo, e della nostra parte del mondo. Penso però che ci sono vicende alle quali si dovrebbe fare riferimento, e provo a dirlo così: durante le guerre milioni di potenziali “lavoratori” sono stati “annullati”. Nell’arco dei trent’anni circa che vanno dalla prima alla seconda guerra mondiale sono morti in azioni di combattimento milioni di giovani (anche altri, donne e bambini e vecchi, sotto i bombardamenti e in tante terribili circostanze che conosciamo). Un silenzio, questo, che può essere comprensibile. Però anche una pesante omissione nelle nostre analisi. E negli stessi anni si ponevano in parallelo urgenti priorità: continuare a produrre attrezzature e strumenti bellici, ricostruire dopo le immani distruzioni. Nei diversi contesti della seconda guerra mondiale fenomeni di migrazioni – interne, o anche di dimensione internazionale - sono stati un fattore fondamentale nei processi di cambiamento delle economie, delle società. Anche la crescita di manodopera femminile nel mondo del lavoro va vista in relazione a questi eventi.

Nelle chiavi di lettura che ci vengono date, e nelle proposte per creare lavoro, di tutte queste componenti non c’è menzione. E’ urgente che la si proponga, una lettura pienamente avvertita dei tanti aspetti che vanno ricostruiti e anticipati e collegati tra loro, tenendo conto delle trasformazioni rispetto ai decenni passati, di quelle che sono in atto e che verranno. Inevitabile che condizioni e processi del futuro li si debba affrontare con prospettive radicalmente cambiate. Il rischio di questa (inconsapevole, forse?) miopia è pesante.

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«Lavorare meno lavorare tutti»

E De Masi riscopre lo slogan «Lavorare meno lavorare tutti»
La disoccupazione giovanile aumenta. «Era più che previsto».
E in futuro? «Aumenterà sempre di più».
Anche se finisce la crisi economica? «Soprattutto se finisce la crisi».
Domenico De Masi, professore di sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, rispondendo alle domande dell’Ansa, sembra non lasciare molte speranze per i giovani che vogliono entrare nel mondo del lavoro. A meno che i loro padri non decidano, a un certo punto, di smettere loro di lavorare troppo e di farsi da parte.
«Lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione ridurranno il lavoro di tipo esecutivo - prevede il professore -. Basta pensare a quanti posti di lavoro ha tolto un’invenzione come il bancomat o di quanti ne togliera´ l’iPad: dalle cartiere alle edicole, sarà una carneficina». […]
http://www.ilsecoloxix.it/p/economia/2011/02/01/ANXr6tgE-lavorare_lavorare_riscopre.shtml

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