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L'isola dei ragazzi persi dalla scuola

25/07/2011

"Insegnare al principe di Danimarca", di Carla Melazzini. In un libro le storie di formazione dei ragazzi incontrati nella "non scuola" del progetto Chance a Napoli

Non di scuola, ma di educazione. “Insegnare al principe di Danimarca”1, questa precisazione la impone. Le storie di formazione che racconta sono di ragazzi senza licenza media che la scuola non è riuscita – forse neppure ha provato – ad affrancare. Figli dei quartieri degradati di una Napoli un tempo operaia, oggi ridotta dalla deindustrializzazione a teatro di guerra di bande criminali. Provare a tirarli fuori, allora, si può solo in una scuola-non scuola. Destrutturata per ricostruire. Che non gli “parla sopra”, non dà per scontato il dialogo, e neppure la parola. Le storie di formazione sono anche la storia dell’“apprendistato di un gruppo di insegnanti di media cultura e umanità”, che il metodo se lo devono inventare passo passo. Lettura emozionante come è stata, tanti anni fa, la “Lettera” di Don Milani. Ma qui non ci sono i Gianni e i Pierini, le icone di una differenza di classe che allora sembrava spiegare tutto, successi e fallimenti. E neppure le mille o duemila parole da recuperare per non restare indietro, nella scuola e nella società. Anna, Salvatore, Enzo, Mimmo, Concetta neanche ce l’hanno il bisogno di imparare. L’hanno perso, bruciato da frustrazioni e povertà, insidiato dalla prossimità con la violenza, i tradimenti, le brutalità, in famiglia e per strada. E anche da una scuola che ha in mente le discipline più che le persone. La professoressa di scuola superiore Carla Melazzini, prestata per undici anni a “Chance”, progetto di recupero scolastico dei marginali, scrive parole asciutte, senza retorica. Con sguardo libero da indulgenze giustificazioniste. L’approccio antropologico, a tratti psicoanalitico, svela verità sgradevoli, non riconducibili agli schemi rassicuranti della sociologia dell’educazione. Nella povertà c’è anche dipendenza, attaccamento ai suoi “vantaggi secondari”. Le mamme, spesso ostili agli insegnanti “che pretendono troppo dai figli”, temono un successo scolastico che potrebbe rendere evidente il proprio fallimento, e insostenibile una condizione interiorizzata come immodificabile. Il panico di uscire dai ranghi prescritti è del resto anche dei ragazzi. Tanti, i maschi, attratti dalla possibilità di riscattare la propria debolezze col “rispetto” che si acquista affiliandosi al “Sistema” (“noi siamo arrivati che colla mente siamo tutti camorristi, se non appartieni a qualcuno non sei nessuno, per essere qualcuno frequenti le cattive compagnie, così inizia il giro… facciamo che un ragazzo viene preso in giro, o viene derubato o picchiato, logicamente pieno di rabbia corre da un boss o da un conoscente che lo accoglierà di sicuro a braccia aperte. Dopo un po’ di tempo può prendersi la giusta vendetta perché è diventato forte e rispettabile”). Tante, le ragazze (40 gravidanze precoci negli undici anni di Chance), travolte dallo sgomento di dover smentire il modello delle mamme e delle nonne con quello che l’istruzione promette, un lavoro onesto, l’autonomia dai maschi della famiglia e della strada. “Non è strano che in famiglie decimate traumaticamente della componente maschile le donne, bambine quasi ancora – si aggrappino alla loro facoltà generatrice di vita. La gravidanza precoce rappresenta il modo più definitivo di rientrare nei ranghi del proprio destino sociale, tagliandosi i ponti alle spalle... solo lentamente ci siamo resi conto di quanto la nostra presenza e azione, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili”. Anche sui luoghi comuni di tanta pedagogia di oggi – la continuità scuola-famiglia, il rapporto scuola-territorio, il radicamento come identità consapevole – cola il gelo di un’analisi affilata e corrosiva. “Chiunque si prendesse la briga di venire in questi quartieri e verificare la maledizione di certi cognomi, che ricorrono di generazione in generazione sempre gli stessi, scritti in rosso sui tabelloni dei bocciati, scritti in nero sui manifesti funebri recanti ‘è mancato all’affetto dei suoi cari’, formula riservata ai morti ammazzati, si leverebbe il vizio di elogiare il radicamento”. Missione impossibile, dunque? Si ridimensiona, certo, l’onnipotenza pedagogica, l’idea che basti insegnare in modo efficace e tutto si risolve, “esistono ostacoli psichici interiori e relazioni insane più forti, e finché non si opera un cambio di contesto è difficile il cambiamento individuale… noi insegnanti abbiamo imparato a dire che un compito viene affrontato solo quando è psichicamente sostenibile”. Non si ridimensiona, invece, la passione etica e politica dell’insegnamento nei luoghi difficili. Le periferie delle città, le periferie dell’anima. E i successi ci sono. Difficili, in tempi e sequenze diversissime da quelle della scuola ordinaria, ma ci sono. Sostenuti da metodi che bisognerebbe usare anche dove gli studenti non sono gli “spostati” di Barre, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio. Rivelatrici le tante pagine dedicate all’apprendimento della lingua. Dal chiasso alla parola. Dalla lingua dei corpi a quella del bisogno di mettere ordine nel caos delle emozioni. Dal dialetto “marcatore, insieme al fumo e al vestiario dell’ostilità degli adolescenti al mondo degli adulti, insegnanti compresi”, ai testi che descrivono, raccontano, riflettono. Dalle grafie smozzicate e contorte di un’alfabetizzazione scadente ai miracoli di correttezza e di nitore restituiti dagli schermi del computer. Un processo faticoso, sempre esposto alle cadute e ai ritorni indietro, che però poco a poco genera autocontrollo, relazione, intenzionalità, idea di futuro. Fino alla capacità, controversa fino all’ultimo minuto, di misurarsi con gli esami. Carla Melazzini scrive di Chance, ma anche dei bienni degli istituti tecnici e professionali di periferia in cui ha insegnato per anni, affondando lo sguardo critico sulla scuola dell’istruzione imposta, che non buca la superficie, non sa entrare in rapporto con le emozioni, l’affettività, la fatica di crescere degli adolescenti. E che perciò fallisce, soprattutto la scuola media che coincide con l’età tormentata dal lutto per la perdita dell’infanzia, con i corpi che non si riconoscono, col bisogno di trovare nuovi punti di appoggio.

Dopo undici anni di un’esperienza così forte e vitale in cui sono passati più di 600 ragazzi, Chance oggi non c’è più. Tutte le istituzioni locali e nazionali che l’avevano resa possibile – dal Comune di Napoli al Ministero della Pubblica Istruzione – si sono una dopo l’altra defilate. Se ne è andata per sempre anche Carla Melazzini, valtellinese di nascita, studentessa alla Scuola Normale di Pisa, napoletana per scelta. Una mini-Chance si sta realizzando, per l’impegno del suo compagno Cesare Moreno e con il parziale sostegno di Fondazioni private. Di tutto ciò il libro non dice niente. Dice molto, invece, sull’educazione, e sulla partita che si dovrebbe giocare nella scuola, a Napoli e altrove.

 

1 Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, (a cura di Cesare Moreno), Palermo, Sellerio 2011

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