Il modello dell'agricoltura industriale – ottusamente produttivista – ci porta in un vicolo cieco, ambientale, economico e sociale. Ripartiamo dai saperi contadini
Economista e sociologa, documentarista e coordinatrice delle attività de “La Ligne d’Horizon”, l’associazione ispirata al pensiero di François Partant, Silvia Pérez-Vitoria ha curato Disfare lo sviluppo per rifare il mondo (Jaca Book 2005), ed è autrice de Il ritorno dei contadini (Jaca Book 2009) e de La risposta dei contadini (Jaca Book 2011), due libri importanti in cui invita a riflettere sugli effetti devastanti del modello dell’agricoltura industriale in un pianeta dalle risorse limitate.
Partiamo dalla terra, una questione che, scrive in Il ritorno dei contadini, “è stata e rimane centrale”. Riprendendo quanto sostiene Karl Polanyi, secondo il quale “la funzione economica è solo una delle numerose funzioni vitali della terra”, lei insiste molto sulla funzione sociale e sui modi d’uso della terra. E afferma che “bisogna ridare alla terra tutte le sue dimensioni”. Ci spiega meglio cosa intende?
La terra rappresenta il fondamento stesso dell’agricoltura, e se intendiamo restituirle tutte le sue dimensioni non possiamo considerarla come un mero “fattore di produzione”. Si tratta infatti di un territorio sul quale vivono le persone, e per il quale alcuni hanno donato la propria vita. Inoltre, presenta determinate caratteristiche, in particolare sul piano ecologico, che non possono essere conservate se non attraverso specifiche pratiche culturali. È per questo che credo che allo slogan che recita “la terra a chi la lavora” andrebbe aggiunto “e a chi permette di conservarla”. Da questo punto di vista l’agricoltura industriale è particolarmente distruttiva perché, a causa delle monocolture e dei metodi intensivi (macchinari, fertilizzanti chimici, irrigazione) contribuisce a denutrire, inquinare e violare i suoli. L’accaparramento di terre a cui si assiste attualmente pone la società davanti a una scelta: cosa vogliamo farne delle terre agricole? Dobbiamo lasciarle nelle mani di chi contribuisce a distruggerle o fare in modo che ne dispongano coloro per i quali l’agricoltura è un modo di vita?
Nella sua analisi, al rapporto commerciale con le conoscenze si contrappongono le pratiche culturali e di coltivazione dei contadini, le cui conoscenze sono state sminuite “per portare a buon fine la modernizzazione dell’agricoltura”. In un saggio pubblicato in Il cosmo infelice (Cooperativa L’altrapagina 2009) suggerisce inoltre di guardare ai “giacimenti di sapere” totalmente marginalizzati dai pensieri scientifici dominanti. Significa che per attuare quella “fuga dallo sviluppo” che lei auspica dovremmo interrogarci sulle ragioni e sui rimedi all’epistemicidio compiuto ai danni delle conoscenze contadine?
Nel corso dei secoli i contadini hanno sviluppato dei saperi e dei saper-fare di grandissima rilevanza, particolarmente adatti alle condizioni nelle quali vivevano. La modernizzazione agricola ha “ricoperto” tali saperi di una “scienza” a vocazione “universalista”. L’agronomia e le politiche di sviluppo si sono edificate proprio sul non-riconoscimento di questi saperi, a volte con delle conseguenze disastrose. Quanti lavorano a contatto con i contadini diventano invece sempre più consapevoli che questi “giacimenti di conoscenze” sono indispensabili per rispondere al cambiamento climatico, per restituire ricchezza ai suoli, etc. La filosofia che è alla base delle relazioni tra i contadini e la Natura infatti è molto diversa da quella della modernità, caratterizzata da rapporti di dominazione. E ci invita a riflettere sul nostro rapporto con il mondo e con lo sviluppo.
A proposito di sviluppo: in La risposta dei contadini lei sostiene che i contadini sono la forza motrice di una trasformazione che dai campi agricoli investe l’intera struttura della società e, con essa, il modo in cui ne intendiamo l’evoluzione. In che senso le proposte avanzate dai contadini “vanno molto al di là di una semplice messa in discussione del modello agricolo vigente”, e sollecitano invece “un’interrogazione generale sulle società nelle quali viviamo”, sulle ideologie dello sviluppo, del progresso, della scienza, dell’economia e della produttività?
L’ideologia dello sviluppo imposta alle nostre società, qualunque fosse il colore politico del regime al potere (socialista o capitalista), ha sempre considerato i contadini alla stregua di vestigia del passato, di cui limitare il numero, da trasformare in coltivatori agricoli o a cui insegnare a “modernizzarsi”. Tanto che oggi nessun paese, neanche quelli con un’ampia percentuale di contadini, accorda priorità all’agricoltura contadina. Tuttavia, i limiti del sistema attuale sono sempre più evidenti: aumento delle disuguaglianze, minacce agli equilibri ecologici, e via dicendo. Come ci ripete di continuo ogni discorso pubblicitario, politico e intellettuale, tutto il mondo aspirerebbe al comfort moderno, garanzia di felicità per l’umanità. Questa “monocultura dello spirito” mi sembra un’infinita fuga in avanti che ha consentito di giustificare tutti i “progressi” tecnologici, anche se pericolosi (penso ad esempio agli Ogm, ma si potrebbe parlare anche delle nanotecnologie o della biologia di sintesi) e una valorizzazione senza fine di una scienza onnipotente, che non è sottomessa ad alcun dibattito democratico. In un periodo in cui tutta una serie di “evidenze” non sono più tali, vale la pena interrogarsi e riconsiderare la questione contadina come centrale, non più marginale. Per esempio, non è così evidente che la natura sia innanzitutto una risorsa economica da sfruttare (c’è chi parla di “capitale naturale”). Per l’agricoltura contadina e ancor più per i popoli autoctoni la terra, le piante e gli animali fanno parte infatti di un modo di vivere, non sono dei semplici elementi economici. Per esempio, non è così evidente che la competitività sia il “motore” delle società, a scapito della solidarietà e della complementarietà. Potremmo moltiplicare gli esempi dei “valori” che abbiamo trascurato e che potrebbero tornarci utili, così come potrebbero esserlo – per affrontare lo squilibrio ecologico in corso – le varietà di piante che l’agricoltura industriale ha contribuito a distruggere.
Lei ci invita a scegliere tra l’ideologia dello sviluppo, che porta con sé “l’idea che le agricolture contadine non siano sufficientemente produttive e che sia necessario ammodernarle”, e un insieme di saperi e saper-fare, quelli contadini appunto, che denunciano la stessa “nozione di ‘direzionalità’ insita nel concetto di sviluppo, secondo la quale tutte le società del mondo dovrebbero seguire il medesimo destino e procedere verso un traguardo comune”. Crede che la triplice crisi che attraversiamo, economica, sociale e ambientale, sia un’occasione per sganciarci dal paradigma “sviluppista”?
Purtroppo, il paradigma “sviluppista” ha vita lunga. E oggi indossa abiti nuovi. Lo sviluppo, declinato “al particolare”, gode di un successo che non smette di rinnovarsi: è stato comunitario, locale, “dal volto umano”. Ora è “sostenibile” o “eco-cittadino”. Modi diversi per far subire alle popolazioni un processo di appropriazione del loro futuro. Attualmente, ci si sforza di soddisfare “gli obiettivi di sviluppo del millennio” per “sradicare la povertà entro il 2015”, senza ragionare sul fatto che, come in passato, un maggiore sviluppo non potrà che produrre maggiore povertà. Lo stesso vale per l’agricoltura. Lo sviluppo agricolo ha prodotto la povertà nelle campagne: le persone si sono trovate senza lavoro, mercato e cibo. È in questo modo che nel mondo i due terzi delle persone che soffrono la fame sono contadini. Sarebbe sensato che si potessero nutrire della loro produzione. Ma le risposte vanno in senso inverso. Il meccanismo si ripete, e le crisi non servono certo a mettere davvero in discussione il modello egemone. Le proposte avanzate suggeriscono infatti di fornire “sementi ad alto rendimento” e fertilizzanti chimici, di aumentare le colture destinate all’esportazione, di “insegnare ai contadini” una migliore gestione, di consentirgli l’accesso al mercato mondiale, etc..
Una delle conseguenze del modello “sviluppista” monodirezionale, reso dottrina dal presidente Truman nel discorso inaugurale al Congresso degli Stati Uniti del 20 gennaio 1949,è quello che Wolfgang Sachs definisce come “mimetismo socio-industriale”: la tendenza, da parte dei paesi una volta considerati “in via di sviluppo”, a seguire il modello dei paesi “avanzati”. Le realtà contadine che ha osservato in giro per il mondo le sembrano indicare l’abbandono di questo modello, oppure è ancora egemone?
I contadini hanno ancora la possibilità di mettere in pratica le idee che difendono, con un grado di autonomia piuttosto fastidioso per il sistema. In questo senso, quando mettono in piedi delle reti di sementi vernacolari, entrano direttamente in contraddizione con un modello agro-scientifico che passa per le sementi “migliorate” e per gli Ogm. Quando decidono di coltivare con delle pratiche poco onerose, a volte articolate su alcuni saper-fare ancestrali, entrano in conflitto con una logica della modernizzazione agricola che vuole spingerli a usare sempre di più fertilizzanti chimici e macchinari costosi. Quando mettono in piedi delle filiere corte di commercializzazione, praticano una proposta alternativa a quella della mondializzazione degli scambi commerciali. Esiste dunque tutta una serie di azioni concrete che disegnano un avvenire diverso per l’umanità. Certamente, il sistema non smette di “recuperare”, di cercare di assorbire tali iniziative, e non è un caso che già si assista al processo di “indus-trializzazione” dell’agricoltura biologica, che ci siano elementi biologici prodotti dalle multinazionali o filiere corte inserite nei circuiti commerciali classici. Ma a dispetto di questo il nuovo cammino è comunque in corso.
Alla base del rafforzamento delle forme tradizionali di agricoltura, della diffusione dell’agricoltura biologica e della rinascita delle pratiche agricole indigene, oltre al diverso rapporto con la terra - investita di una funzione sociale, simbolica, religiosa – c’è soprattutto una diversa razionalità rispetto a quella economica che ha modificato il rapporto tra uomo e Natura, sostituendo la gratuità della Natura con i valori mercantili e, poi, con chiavistelli biologici, marcature genetiche e brevetti: la razionalità ecologica. Ci spiega le differenza tra le due forme di razionalità?
Provo a spiegare la differenza con un esempio. Quando si osserva il giardino di un piccolo contadino dell’America centrale, si nota che dispone di tutta una serie di piante che apparentemente non hanno alcuna utilità commerciale. Spesso il contadino ha dozzine di piante di cui soltanto qualcuna è “vendibile” e perfino “commestibile”. Tuttavia, tutte hanno una qualche utilità, e quel contadino potrebbe spiegare che quella determinata pianta permette di compensare i deficit nutrizionali del terreno, quell’altra trattiene l’acqua, quella lì ospita il predatore di un certo insetto, quell’altra fa ombra e quell’altra ancora, infine, è bella a guardarsi! La priorità in questo caso non è quella di assicurare l’equilibrio economico, ma un altro equilibrio, più ricco, più vario e più complesso. È questo equilibrio che soddisfa le funzioni vitali degli uomini e della natura, non l’equilibrio degli economisti.
Lei sostiene che occorre resistere alle promesse dell’agricoltura industriale, “latrice di morte sia al livello ecologico che sociale”, perché non è né emendabile né riformabile. Cosa risponde a quanti affermano che l’industrializzazione dell’agricoltura e l’aumento della produttività sono gli unici strumenti per garantire il cibo a tutta la popolazione mondiale?
La prima constatazione è che l’agricoltura industriale non nutre il mondo perché in questo momento c’è più di un miliardo di persone che soffre la fame e un altro miliardo che mangia troppo. Il sistema agro-alimentare non può nutrire l’umanità perché questo non è il suo obiettivo (d’altronde oggi non esita a trasformare gli alimenti in agro-carburante). Quanto alla questione del rendimento tutto dipende da come si calcola. Certo, l’agricoltura industriale ha permesso di aumentare considerevolmente le quantità prodotte, ma lo ha fatto al prezzo di una considerevole distruzione ambientale (inquinamento, perdita della biodiversità, consumo del 70% dell’acqua dolce del pianeta…), il che ci suggerisce di riconsiderare i nostri calcoli. Se nutrire l’umanità dovesse dipendere da tre o quattro multinazionali che decidono cosa debba essere coltivato e consumato in ogni angolo del pianeta, ci troveremmo veramente nei guai. Si può produrre tutto e si possono mantenere nel lungo termine gli equilibri ecologici e sociali. Per farlo, c’è però bisogno di una classe contadina numerosa, ripartita sul territorio, che abbia recuperato i suoi saperi e saper-fare.
Di fronte alla liberalizzazione degli scambi commerciali agricoli, “principale politica d’estirpazione della società contadina nel mondo”, lei suggerisce di “rilocalizzare la produzione e il commercio degli alimenti”, rafforzando “un’agricoltura su piccola scala, che mira più all’equilibrio che allo sviluppo”. Come risponde a quanti obiettano che mettere in discussione il modello industriale di produzione e distribuzione è irrealizzabile, o addirittura utopico?
L’agricoltura industriale, e l’industria agroalimentare sulla quale si poggia, dimostra quotidianamente il proprio fallimento sul piano ecologico, su quello della qualità dell’alimentazione prodotta, sul piano dell’occupazione. Inoltre, anche se ha permesso di aumentare la quantità di alimenti prodotti, questi rimangono inaccessibili a più di un miliardo di persone. Non dovrebbe essere considerato irrealistico perseverare con questo tipo di agricoltura, piuttosto? I sistemi agricoli su piccola scala assicurano invece in tutto il mondo un’alimentazione di qualità e permettono ai contadini di vivere del proprio lavoro, dimostrando una grande efficacia, soprattutto in termini di equilibri ecologici. In un rapporto redatto nel maggio 2007 da alcuni esperti riuniti alla Fao, sono stati riconosciuti i vantaggi di questo tipo di agricoltura, che permetterebbe di nutrire meglio l’umanità. Esistono però ostacoli di natura politica ed economica all’affermazione di questo orientamento, perché intorno all’agricoltura industriale si sono costituiti interessi notevoli: le industrie chimiche, di biotecnologia, delle sementi ma anche quelle farmaceutiche e veterinarie difendono l’agricoltura industriale e i benefici, considerevoli, che ne traggono. Nel periodo delle sommosse per il cibo del 2007-8, la Monsanto ha registrato un aumento del 120% dei suoi ricavi. Inoltre, per ora, non c’è nessuno Stato che consideri prioritaria la promozione della piccola agricoltura.
Lei non risparmia critiche anche molto aspre alla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura: in Il ritorno dei contadini scrive per esempio che la costanza con la quale “si ostina a presentare proposte, che pur hanno dimostrato la loro inefficacia, è avvilente”. Dove sbaglia la Fao, e perché è importante distinguere - come fa lei - sicurezza alimentare da sovranità alimentare?
Le cifre, diffuse proprio dalla Fao, secondo cui ci sono più di un miliardo di persone che soffrono la fame, indicano il fallimento delle sue politiche e di tutte le politiche di sviluppo adottate finora. La Fao ha sostenuto la cosiddetta Rivoluzione verde degli anni Sessanta, in particolare in America latina e in Asia e oggi ne sostiene una nuova, soprattutto in Africa. Ma le ricette sono sempre le stesse, e si riducono all’aumento della produzione attraverso le tecnologie (sementi “migliorate”, meccanizzazione, fertilizzanti chimici). Ricette che hanno negato le potenzialità locali dei contadini, conducendoli a una situazione di dipendenza, se non di rovina. L’adozione di queste politiche conduce allo sviluppo delle bidonville e delle migrazioni. La nozione di “sicurezza alimentare” fa riferimento al fatto che le persone devono avere accesso al cibo per l’alimentazione, anche se interamente importato. Mentre la nozione di “sovranità alimentare”, introdotta dal movimento Via Campesina nel 1996 nel contro-summit della Fao per l’alimentazione, fa riferimento al diritto dei popoli a coltivare il proprio cibo secondo le pratiche che ritiene proprie. E’ questo il modo per garantire autonomia e un controllo dei propri modi di vivere.
Una versione più ampia di questa intervista è uscita sul numero di marzo della rivista Lo Straniero
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