Renzismo alla prova/La nostra Costituzione ha bisogno di modifiche, ma la loro realizzazione dovrà rispettare lo spirito dell'articolo 138 dell'ordinamento
«Uscire dalla palude», «decongestionare il sistema», «sbloccare le riforme» dopo trent'anni di fallimenti. Sono queste le formule, le parole, le sollecitazioni dalle quali siamo stati sommersi in queste settimane. Una offensiva mediatica e culturale talmente pressante da essere riuscita, in poco tempo, a sortire nel senso comune una stupefacente rimozione. Perché non è vero che, in questi anni, non sono state fatte riforme. Le riforme si sono fatte, ma sono state riforme sbagliate. È il caso della revisione del titolo V avvenuta nel 2001, rispetto alla quale il Parlamento si sta oggi adoperando per porre dei rimedi. Ma anche della legge elettorale del 2005, dichiarata recentemente incostituzionale dalla Corte con la sent. n. 1 del 2014.
Riforme, queste (e molte altre), approvate da maggioranze di governo, su input degli esecutivi, a tappe forzate, comprimendo a piè sospinto il confronto parlamentare. Di queste riforme sbagliate noi oggi stiamo (prevalentemente) parlando e non di altro.
Sia ben chiaro ciò non vuol dire che la Costituzione non abbia bisogno di riforme, ma piuttosto che le poche e necessarie riforme da realizzare dovranno essere perseguite nel rispetto del metodo e dello spirito dell'art. 138. Dovrà, pertanto, trattarsi di riforme: a) il più possibile delimitate; b) estranee alla sfera dell'indirizzo politico di governo; c) prudentemente vagliate. D'altronde è lo stesso procedimento di revisione, così come costituzionalmente configurato, ad alludere a un confronto aperto, senza blindature, lungo (l'art. 138 non prevede tempi massimi, ma solo tempi minimi).
Il disegno di legge del Governo «per il superamento del bicameralismo paritario» (As 1429) contraddice ognuno dei singoli profili di metodo sopra richiamati: a) la riforma Renzi-Boschi non può di certo essere ritenuta una riforma circoscritta nei suoi contenuti. Essa - se approvata - è destinata a incidere su un numero significativamente alto di articoli, coinvolgendo più «ambiti» costituzionali: forma di stato e forma di governo; prerogative dei parlamentari e decretazione d'urgenza; abolizione delle province e iniziativa del legislativa del Governo; abolizione del Cnel e sindacato di costituzionalità); b) il processo di revisione costituzionale è oggi parte integrante dell'indirizzo politico del Governo. Dominus incontrastato delle riforme è pertanto divenuto l'esecutivo. Non è un caso che finanche la sopravvivenza del Governo venga oggi fatta dipendere, dallo stesso Presidente del Consiglio, dall'esito positivo delle riforme, e in particolare dalla riforma del Senato; c) il confronto politico e parlamentare sulla riforma costituzionale è stato fino a oggi contrassegnato da dinamiche asfittiche, epurazioni (caso Mineo docet), sbreghi procedurali. I margini di praticabilità politica per un confronto aperto e senza forzature decisioniste sono stati, in questi mesi, costantemente mortificati dalla retorica degli annunci, degli spot, dei «rulli compressori».
Per ciò che concerne i contenuti della riforma essi appaiono confusi e contraddittori. Il progetto di riforma del Governo prevede un vistoso ri-accentramento di materie e funzioni a livello statale (coordinamento della finanza; ordinamento scolastico; distribuzione dell'energia; tutela della salute), sopprime la potestà ripartita Stato-Regione, travolge la cd. devolution debole (art. 116.3 Cost.) e molto altro ancora. Una soluzione costituzionale netta che può piacerci o meno, ma in ogni caso netta. Ciò che non si comprende però è come questo processo di accentramento delle funzioni statali possa mai raccordarsi con l'agognata composizione territoriale del futuro Senato. Cosa hanno a che fare Presidenti di Regione e Sindaci con l'istituzione di una Camera che nulla ha di territoriale? E quale il loro ruolo specifico all'interno di una Camera dotata di funzioni essenzialmente consultive e di una azione normativa che non va oltre l'approvazione delle leggi costituzionali?
Se obiettivo del Governo era quello di «rottamare» il Senato, si sarebbe allora più coerentemente potuto optare per la soluzione monocamerale, sulla scia dei modelli adottati in altre democrazie europee (Danimarca, Finlandia, Grecia, Portogallo, Svezia, Norvegia), integrando questa revisione con la opportuna costituzionalizzazione di un sistema proporzionale per l'elezione della Camera dei deputati. Ma ciò che è conta per il Governo non è il contenuto delle riforme, né tanto meno il metodo. Ciò che conta è fare, «portare a casa» le riforme: non importa quali o come. Nell'Italia dei populismi vi è solo una priorità che tende ad affermarsi su ogni altra e che il ciclone Renzi ha dimostrato di saper intercettare e rappresentare meglio di chiunque altro (Berlusconi e Grillo compresi): rottamare la «casta», abbattere le sedi e i costi della politica, semplificare le procedure democratiche (a tal punto che finanche la crisi viene oggi presentata come un portato naturale delle patologie di questo sistema). E quindi basta con le Province, i Consigli regionali troppo affollati, il Senato. Anche se la «rottamazione costituzionale» di Renzi non si propone, in alcun modo, di far fuori dal quadro ordinamentale Province (che continueranno a esistere sotto mentite spoglie), Regioni e Senato. Il suo obiettivo è un altro: far fuori da ognuno di questi livelli di governo la rappresentanza politica e democratica.
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