Di fronte alla crisi, non ci si deve limitare a evocare lo scenario del disastro, ma immaginare e praticare modelli alternativi e nuovi sistemi culturali
Mesi fa (non molti comunque) il presidente del Consiglio dell’epoca ci esortava ad essere ottimisti; i media (non proprio tutti) assecondavano il suo messaggio. Da molte settimane prevale un linguaggio che, all’opposto, insiste su espressioni come queste (ne ho raccolte alcune): “sull’orlo del baratro. In affanno. Messi in ginocchio dalla crisi. Emergenza. Incertezza. La stangata. Il 2011, “annus horribilis”. Tirare la cinghia. Non si arriva a fine mese. Rincari. Rinunce (al mutuo, alle vacanze, allo shopping). Una famiglia su quattro a rischio povertà. Italiani mai così pessimisti. Non abbiamo – e soprattutto i giovani non hanno – un futuro”. Naturalmente lo spread, anche se pochi capiscono di che cosa si tratta; la decrescita. Queste le parole. E le immagini ripetutamente proposte nei telegiornali e nei talk show: si scelgono “pensionati”, “disoccupati”, “donne-casalinghe”, con i quali si scambiano brevi frasi nei supermercati o anche nelle strade del centro, vicino a negozi scintillanti. Dicono delle crescenti condizioni di difficoltà nelle loro vite; di incertezze, preoccupazioni. Abbiamo anche lunghe e articolate analisi di esperti, dati statistici, confronti con altri paesi (quasi sempre ci collochiamo all’ultimo posto nelle graduatorie, si tratti di dati sul Pil, sull’occupazione, sulla crescita, sul benessere: tutte dimensioni, peraltro, non facili da definire e misurare). Portare l’attenzione su prospettive tutte negative è stata la strategia comunicativa prevalente tra la fine del 2011 e l’inizio dell’anno nuovo (pochissime le eccezioni). Lo sappiamo che molti si trovano, in Italia e in Europa e nel mondo, ad affrontare processi di cambiamento non controllabili, pesanti difficoltà, un futuro incerto. Ma potremmo anche provare a ragionare con chiavi di lettura diverse – non risolutive rispetto ai problemi, certo – cercando però di uscire dalla prospettiva prevalente, che appunto appiattisce processi e situazioni diversificati e complessi; e che in nessun modo aiuta ad andare avanti.
Tornando al passato non possiamo cancellare come si siano aperti passaggi imprevisti, anche importanti prospettive di cambiamento, in seguito a fasi di difficoltà, a esperienze drammatiche. La guerra mondiale e le complesse situazioni economiche a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso hanno portato all’elaborazione del welfare state britannico. Richiamando un’altra fase di crisi, gli anni Settanta e Ottanta, vediamo come in quegli anni siano emerse chiavi di lettura volte a mettere in luce possibili vie di uscita. Si sono fatte sperimentazioni su forme di organizzazione del vivere quotidiano volte ad evitare sprechi e a utilizzare in comune beni e risorse. Se ne è parlato e scritto in studi e dibattiti. Un patrimonio di idee che potrebbe essere utile riprendere (qualche riflessione comincia a esserci: di co-housing e work sharing, di baratto e scambi e altre modalità, del “lavoro fuori mercato” si è ripreso a parlare. E si porta l’attenzione su possibili forme non tradizionali dell’uso del tempo). Non c’è molto di nuovo rispetto ad elaborazioni e proposte di alcuni decenni fa: si diceva “Time To Care”, si sono sviluppate importanti chiavi di analisi, in larga misura, negli anni successivi, messe da parte. Ma ha senso ignorare situazioni e strategie del vivere diverse da quelle prevalenti in una certa fase storica; o dobbiamo riconoscere che nel tempo le cose cambiano?
Come segno di attenzione, o forse come un augurio, sull’Espresso nel primo numero del 2012 si delinea la fase della “nuova austerità”. C’è anche un’intervista a uno studioso da sempre molto attivo su questi temi, Serge Latouche, che riprende analisi già in passato dibattute: si dice “elogio della frugalità”, e si porta l’attenzione su come, inevitabilmente, saranno riorganizzati i tempi del nostro vivere. Si tratta di aprirsi a una nuova “cultura”. Delineare scenari alternativi, come realizzarli o come evitarli: comunque non ci si può limitare a ragionare su un unico scenario (quello del disastro). Portare l’attenzione su come guardare ad interventi, “piani”, “riforme”: se gli effetti vadano valutati facendo riferimento al breve, o al medio, o al più lungo termine. Se siano stati quelli che ci si proponeva di realizzare, o invece non ci si sia arrivati. Peggio, si può anche trattare di “effetti perversi”. Dunque procedere con forme di costante monitoraggio: un altro criterio di evidente rilevanza. E mettere in luce e valorizzare anche risorse, strategie, “capacità” che si attivano ai diversi livelli del sistema sociale, anche nella vita quotidiana degli “attori”.
E un ultimo punto da richiamare. È scontato. Non ha senso che ci si collochi in rapporto ad analisi e proposte emerse decenni addietro senza mettere al centro le molte nuove dimensioni degli anni che abbiamo davanti: dunque la “globalizzazione”, la disponibilità di nuovi strumenti e tecnologie, i flussi della mobilità e delle migrazioni, i dati demografici, crescenti numeri di persone con alti livelli di formazione, con progetti e aspettative, con capacità di mobilitazione. E i cambiamenti nel mondo lavoro e nei modi stessi di lavorare: per donne e uomini, per “giovani” e “adulti” e “anziani”, per noi “cittadini“ e per quelli che definiamo “immigrati”. Gli eventi nell’area mediterranea così vicina a noi, ma anche in molte altre situazioni cui in genere non rivolgiamo attenzione. Significa che sono attivi, appunto, “attori sociali” e livelli di intervento che cambiano il quadro e le prospettive; si delineano processi “culturali” inediti. Guardiamo a questo scenario complesso, in movimento. Mettiamolo bene in luce, nell’analizzare la società e la politica (in Italia, in Europa, a livello mondiale). Non averle presenti, le molte dimensioni, e non impegnarci ad incrociarle con i dati “economici” (certo, nelle analisi della fase attuale centrali): ce lo possiamo permettere?
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