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Crisi: l’occasione per cambiare

03/01/2012

Di fronte alla crisi, non ci si deve limitare a evocare lo scenario del disastro, ma immaginare e praticare modelli alternativi e nuovi sistemi culturali

Mesi fa (non molti comunque) il presidente del Consiglio dell’epoca ci esortava ad essere ottimisti; i media (non proprio tutti) assecondavano il suo messaggio. Da molte settimane prevale un linguaggio che, all’opposto, insiste su espressioni come queste (ne ho raccolte alcune): “sull’orlo del baratro. In affanno. Messi in ginocchio dalla crisi. Emergenza. Incertezza. La stangata. Il 2011, “annus horribilis”. Tirare la cinghia. Non si arriva a fine mese. Rincari. Rinunce (al mutuo, alle vacanze, allo shopping). Una famiglia su quattro a rischio povertà. Italiani mai così pessimisti. Non abbiamo – e soprattutto i giovani non hanno – un futuro”. Naturalmente lo spread, anche se pochi capiscono di che cosa si tratta; la decrescita. Queste le parole. E le immagini ripetutamente proposte nei telegiornali e nei talk show: si scelgono “pensionati”, “disoccupati”, “donne-casalinghe”, con i quali si scambiano brevi frasi nei supermercati o anche nelle strade del centro, vicino a negozi scintillanti. Dicono delle crescenti condizioni di difficoltà nelle loro vite; di incertezze, preoccupazioni. Abbiamo anche lunghe e articolate analisi di esperti, dati statistici, confronti con altri paesi (quasi sempre ci collochiamo all’ultimo posto nelle graduatorie, si tratti di dati sul Pil, sull’occupazione, sulla crescita, sul benessere: tutte dimensioni, peraltro, non facili da definire e misurare). Portare l’attenzione su prospettive tutte negative è stata la strategia comunicativa prevalente tra la fine del 2011 e l’inizio dell’anno nuovo (pochissime le eccezioni). Lo sappiamo che molti si trovano, in Italia e in Europa e nel mondo, ad affrontare processi di cambiamento non controllabili, pesanti difficoltà, un futuro incerto. Ma potremmo anche provare a ragionare con chiavi di lettura diverse – non risolutive rispetto ai problemi, certo – cercando però di uscire dalla prospettiva prevalente, che appunto appiattisce processi e situazioni diversificati e complessi; e che in nessun modo aiuta ad andare avanti.

Tornando al passato non possiamo cancellare come si siano aperti passaggi imprevisti, anche importanti prospettive di cambiamento, in seguito a fasi di difficoltà, a esperienze drammatiche. La guerra mondiale e le complesse situazioni economiche a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso hanno portato all’elaborazione del welfare state britannico. Richiamando un’altra fase di crisi, gli anni Settanta e Ottanta, vediamo come in quegli anni siano emerse chiavi di lettura volte a mettere in luce possibili vie di uscita. Si sono fatte sperimentazioni su forme di organizzazione del vivere quotidiano volte ad evitare sprechi e a utilizzare in comune beni e risorse. Se ne è parlato e scritto in studi e dibattiti. Un patrimonio di idee che potrebbe essere utile riprendere (qualche riflessione comincia a esserci: di co-housing e work sharing, di baratto e scambi e altre modalità, del “lavoro fuori mercato” si è ripreso a parlare. E si porta l’attenzione su possibili forme non tradizionali dell’uso del tempo). Non c’è molto di nuovo rispetto ad elaborazioni e proposte di alcuni decenni fa: si diceva “Time To Care”, si sono sviluppate importanti chiavi di analisi, in larga misura, negli anni successivi, messe da parte. Ma ha senso ignorare situazioni e strategie del vivere diverse da quelle prevalenti in una certa fase storica; o dobbiamo riconoscere che nel tempo le cose cambiano?

Come segno di attenzione, o forse come un augurio, sull’Espresso nel primo numero del 2012 si delinea la fase della “nuova austerità”. C’è anche un’intervista a uno studioso da sempre molto attivo su questi temi, Serge Latouche, che riprende analisi già in passato dibattute: si dice “elogio della frugalità”, e si porta l’attenzione su come, inevitabilmente, saranno riorganizzati i tempi del nostro vivere. Si tratta di aprirsi a una nuova “cultura”. Delineare scenari alternativi, come realizzarli o come evitarli: comunque non ci si può limitare a ragionare su un unico scenario (quello del disastro). Portare l’attenzione su come guardare ad interventi, “piani”, “riforme”: se gli effetti vadano valutati facendo riferimento al breve, o al medio, o al più lungo termine. Se siano stati quelli che ci si proponeva di realizzare, o invece non ci si sia arrivati. Peggio, si può anche trattare di “effetti perversi”. Dunque procedere con forme di costante monitoraggio: un altro criterio di evidente rilevanza. E mettere in luce e valorizzare anche risorse, strategie, “capacità” che si attivano ai diversi livelli del sistema sociale, anche nella vita quotidiana degli “attori”.

E un ultimo punto da richiamare. È scontato. Non ha senso che ci si collochi in rapporto ad analisi e proposte emerse decenni addietro senza mettere al centro le molte nuove dimensioni degli anni che abbiamo davanti: dunque la “globalizzazione”, la disponibilità di nuovi strumenti e tecnologie, i flussi della mobilità e delle migrazioni, i dati demografici, crescenti numeri di persone con alti livelli di formazione, con progetti e aspettative, con capacità di mobilitazione. E i cambiamenti nel mondo lavoro e nei modi stessi di lavorare: per donne e uomini, per “giovani” e “adulti” e “anziani”, per noi “cittadini“ e per quelli che definiamo “immigrati”. Gli eventi nell’area mediterranea così vicina a noi, ma anche in molte altre situazioni cui in genere non rivolgiamo attenzione. Significa che sono attivi, appunto, “attori sociali” e livelli di intervento che cambiano il quadro e le prospettive; si delineano processi “culturali” inediti. Guardiamo a questo scenario complesso, in movimento. Mettiamolo bene in luce, nell’analizzare la società e la politica (in Italia, in Europa, a livello mondiale). Non averle presenti, le molte dimensioni, e non impegnarci ad incrociarle con i dati “economici” (certo, nelle analisi della fase attuale centrali): ce lo possiamo permettere?

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Commenti

L'economia che non c'è

Con le analisi e contro analisi si è forse rasciato il fondo del SISTEMA capitalistico. Per il rigore o per l'economia espansiva, per la moneta sovrana o contro. Poi l'ungheria ci dice che sono tutte parole a vuoto.
In realtà si salvano solo in pochi al di là della formula economica-monetaria, o soluzioni di "sviluppo" dei vari Stati.
Allora, oltre alle lamentazioni e schieramenti di principio, quali altre economie possiamo prendere in considerazione?
Se il capitalismo non è più in grado di mantenere un relativo benessere quale alternative abbiamo?
Quella del Dono, del Potlatch, come dice il leader di Occupy Wall Street? Si ma in concreto?
Quella della decrescita? ma con quale sistema economico-monetario?
Le domande sono tante.
A mio avviso si deve avviare PIU' soluzioni alternative, mettere in moto più economie -oltre quella del mercato-capitalistico- e che nella competizione sociale vinca la migliore.
Perchè non si aproprono varie "scuole di dibattito" in queste direzioni?
Antonio Savino

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