Sono oramai quasi cinque anni da quando è deflagrato il problema greco, reso clamoroso dalla crisi mondiale ma da quella solo in minima parte causato: già da quando il paese, nel 1981, era entrato nella Comunità europea, primo fra i nuovi sud mediterranei, era risultato evidente che l’allargamento a questa nuova zona dell’Europa avrebbe dovuto indurre cambiamenti di non poco conto nella politica di Bruxelles
Con l’ingresso della Grecia, e qualche anno dopo della Spagna e del Portogallo, tutti e tre peraltro appena usciti dalla dittatura, la nord-centrica entità avrebbe dovuto fare i conti con un ineludibile problema: quello nord-sud (cui solo l’Italia era familiare). Che molti di loro avevano conosciuto solo nei termini del colonialismo.
Con lucidità, quando qualche mese dopo esser diventata membro della Cee la Grecia divenne titolare della sua presidenza di turno, il suo ministro degli esteri Charampopulos, dichiarò: «Accettiamo le responsabilità che ci derivano dalla presidenza, ma non possiamo per questo venir meno ai nostri vecchi giudizi... L’Europa dei sei e poi dei nove era l’Europa dei ricchi, del nord. L’Europa dei dieci e ancor più quella dei dodici sarà un’Europa che vivrà in modo acuto i problemi nord-sud che non possono esser risolti se non attraverso un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato, destinato ad approfondire la polarizzazione».
Charampopulos rappresentava il primo governo socialista del paese, quello di Andreas Papandreu, che tuttavia, dopo un buon esordio, dimenticò molte cose. Fra queste l’impegno a trarre le conseguenze dalla realistica considerazione espressa all’inizio dell’avventura europea. Era ancora lui al governo, e perciò membro del Consiglio dei Ministri europeo, quando questo, nel 1986, assunse una delle decisioni più cariche di conseguenze negative: la liberalizzazione del movimento dei capitali senza che alcuna altra misura compensativa delle sue possibili conseguenze fosse presa. E non risulta che Atene abbia obiettato, così come, del resto, nessuno dei molti governi socialisti che a quel tempo governavano. Così come assai poco obiettarono anche le sinistre all’opposizione, come nel caso italiano. La speranza di un’intesa mediterranea non si concretizzò mai.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, nel 1993, per non parlare dell’Eurozona, il divario nord-sud diventa cronico. A questo punto anche ove fosse ipotizzabile il massiccio trasferimento auspicato dalla Grecia nel 1981, non sarebbe più sufficiente. Sarebbe necessaria una ridefinizione complessiva del modello e della strategia dell’Unione. Che come sappiamo non ci fu, né c’è tantomeno oggi.
Le risorse dell’Unione furono così sfruttate con spregiudicatezza per operazioni speculative, sovvenzioni a investimenti privati non programmati e non produttivi e un po’ di demagogica spesa pubblica elettorale.
Sappiano tutti cosa è accaduto dopo: nel 1998, quando la Grecia chiede di entrare nel sistema monetario europeo, il suo deficit è al 4,6 % e il suo debito pubblico al 108,5. Cifre troppo negative per ottenere il diritto all’ingresso nell’esclusivo club. Ma il nuovo governo socialista, quello di Simitis, dichiara, solo due anni più tardi, di aver messo tutto in regola e ottiene di entrare nell’Eurozona. E però non era vero, il bilancio era stato falsato. Da allora cresce un’abnorme evasione fiscale, sperpero e corruzione, mentre il paese viene posto sotto la miope tutela di Bruxelles, tanto più interessata a non vedere la realtà perché chi comanda in Europa sono i compagni di partito di quelli al governo ad Atene.
Poi la serie di prestiti micragnosi e condizionati da inaccettabili misure di politica economica: nel 2009 110 miliardi di euro (80 dall’Ue,30 dal Fmi) sulla base del Memorandum of Understanding, da ripagare in 13 tranches. Molto lucrativo per i creditori, soprattutto tedeschi. Inutile per la Grecia. Così come il secondo piano del 2010, basato su prestiti del Fondo Europeo di Stabilità Monetaria, dell’Fmi, e del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, e così come tutte le altre misure d’emergenza caoticamente e affannosamente varate in questi ultimi anni senza alcuna legittimazione democratica dei procedimenti posti in atto. Perché sempre finalizzate alla restituzione del debito, mai a creare le condizioni necessarie a far sì che tale restituzione fosse possibile: una profonda ristrutturazione dell’economia del paese e un rilancio degli investimenti per uno sviluppo sensato.
Il resto, quanto avviene nella società greca e i mutamenti politici che si innescano, fino alla controffensiva democratica di Syriza, è cronaca attuale.
Ma a questo punto non siamo più al dramma greco, siamo alla crisi dell’Unione Europea tutta: investita da proteste, scetticismo, perduta credibilità. Cui Bruxelles risponde accentuando ulteriormente la tendenza a escludere la politica, e dunque il controllo democratico, dalle decisioni. Siamo oramai nel pieno del modello post-parlamentare e post-democratico, quello auspicato dalla Trilateral più di quaranta anni fa, quando, con la fine della convertibilità del dollaro, ci fu il primo segnale della crisi epocale che viviamo ancor oggi. C’è troppa democrazia, il sistema non può sopportarla – proclamarono allora gli esponenti dell’Occidente, consigliando di non lasciare le questioni economiche in mano a parlamenti incompetenti, perché troppo delicate e complesse.
Di questo modello l’Ue è diventata anticipatrice, sollecitando i governi nazionali dei paesi membri a seguire un’analoga indicazione. (Quello di Matteo Renzi è il miglior allievo).
Era inevitabile che una vicenda che ha prodotto drammi sociali così gravi aprisse un dibattito acceso sulla strategia da perseguire per rendere meno pesante il ricatto cui il paese è stato sopposto anche con il chiaro intento di liberarsi di un governo «pericoloso» come quello di Tsipras: uscire dall’euro e fatalmente dall’Ue, oppure subire il compromesso e cercare di gestirlo per recuperare un rapporto di forza che renda possibile un’alternativa.
Gli articoli, le interviste, i documenti pubblicati nelle pagine di questo e-book aiuteranno ciascuno a farsi un’opinione più circostanziata. La questione ha tanti e drammatici risvolti che non c’è da meravigliarsi se si sono verificati, in Grecia e non solo, dissensi anche aspri e rotture.
Confesso di far fatica a entrare nel dibattito greco perché capisco le perplessità di chi in questi anni ha forse pensato che la strada sarebbe stata più facile e oggi si trova invece difronte a scelte durissime. Capisco la sofferenza di chi vive in prima persona la lacerazione di Syriza la cui unità è stata, anche per noi, un esempio e una speranza. Sono tutti, da una parte e dall’altra, compagni che stimo, moltissimi che conosco da tempo e per cui nutro anche molto affetto. Ma proprio perché la vicenda non è ormai più solo greca ma europea, e dunque riguarda anche noi non greci, non posso esimermi dal dare un giudizio, avere un’opinione. Che tiene conto del fatto che, nel giudicare, mi preoccupa il come riorganizzeremo le forze di un fronte di sinistra in grado di combattere per una diversa Unione europea.
Ho detto Unione e non solo Europa, perché credo sarebbe una catastrofe se ciascuno decidesse di andarsene, così perdendo il terreno comune di lotta, il quadro entro cui, per difficile che sia, si deve combattere. Tenendo a mente soprattutto che se c’è, nell’era della globalizzazione, una speranza di conservare un qualche controllo politico sulle sorti delle nostre società, dobbiamo continuare a puntare su una articolazione macroregionale del mondo, al cui livello non è pensabile possa esser costruito un ordinamento democratico.
Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato. (La Germania, forse, potrebbe permettersi un’uscita dall’Ue, né la Grecia e nemmeno l’Italia, costi quel che costi. Il prezzo di un exit sarebbe molto più caro.)
Non perdere l’Europa, anche perché – come ha scritto Balibar in questo volume – l’Europa è stata condotta dalla storia dei suoi movimenti sociali (delle dure lotte di classe che vi si sono svolte) a un grado di riconoscimento istituzionale dei diritti sociali come diritti fondamentali senza uguali. Non a caso la cosa che abbiamo più in comune per davvero in Europa è proprio il nostro sindacalismo, non mero agente del prezzo della forza lavoro, ma portatore di un’etica che ha penetrato il buonsenso comune. È vero che questo patrimonio è ormai gravemente minacciato, ma proprio per questo dobbiamo cercare di non lasciare che ce lo portino definitivamente via.
Per tutte queste ragioni sono d’accordo con la difficile scelta di Tsipras. Anche perché la sua sfida mi tiene, come sinistra italiana ed europea, dentro la battaglia. Che è buona cosa per noi non greci, ma anche – credo – per i greci. Sebbene sia consapevole che quanto fino ad ora abbiamo fatto sia così poco; e quello che siamo riusciti a imporre ai nostri governi niente.
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