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La Germania vuole far a pezzi la Grecia

17/07/2015

La Germania è contro il buon senso. La questione chiave è il rifiuto da parte dei nostri creditori di concedere una sostanziale riduzione del debito.

Il dramma delle finanze della Grecia ha dominato le prime pagine dei giornali per cinque anni per una ragione: l'ostinato rifiuto da parte dei nostri creditori di concedere una sostanziale riduzione del debito.

Perché, contro il comune buon senso, contro la decisione del FMI e contro la prassi quotidiana dei banchieri di non accanirsi contro i debitori in difficoltà, essi si oppongono a una ristrutturazione del debito? La risposta non può essere trovata nell'economia perchè è profondamente radicata nella “labirintica” politica dell'Unione.
Nel 2010, lo stato greco è diventato insolvente. Si sono presentate due opzioni per far restare la Grecia membro dell'Eurozona: quella ragionevole, che qualsiasi banchiere rispettabile consiglierebbe – ristrutturare il debito e riformare l'economia; e quella tossica – erogare nuovi prestiti a uno stato in bancarotta fingendo che rimanga solvibile.
L'Europa ha scelto la seconda opzione, anteponendo il salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte al debito pubblico della Grecia alla sopravvivenza socioeconomica della Grecia. Una ristrutturazione del debito avrebbe comportato delle perdite per i banchieri che detengono quote del debito greco. Non volendo confessare ai parlamenti che i contribuenti avrebbero dovuto pagare di nuovo per salvare le banche mediante nuovi insostenibili prestiti, i rappresentanti dell'Unione hanno presentato l'insolvenza dello stato greco come un problema di mancanza di liquidità, ed hanno giustificato il salvataggio come una questione di solidarietà con il popolo greco.

Per spacciare il cinico trasferimento di perdite private irrecuperabili sulle spalle dei contribuenti come un esercizio di “amore tenace”, è stata imposta un'austerità da record alla Grecia, il cui reddito nazionale – tramite il quale sono stati riparati vecchi e nuovi debiti – è diminuito di più di un quarto. Bastavano le competenze matematiche di un bambino sveglio di otto anni per capire che questo processo non si sarebbe concluso bene.

Una volta completata la sordida operazione, l'Europa ha automaticamente acquisito un altro motivo per rifiutarsi di discutere la ristrutturazione del debito: essa avrebbe colpito le tasche dei cittadini europei! E così sono state somministrate ulteriori dosi di austerità mentre il debito diveniva sempre più grande, costringendo i creditori ad erogare nuovi prestiti in cambio di un'austerità sempre più accentuata.

Il nostro governo è stato eletto per porre fine a questo circolo vizioso; per chiedere la ristrutturazione del debito e una fine all'insostenibile austerità. I negoziati si sono arenati nella ben pubblicizzata impasse per una semplice ragione: i nostri creditori continuano ad escludere qualsiasi concreta ristrutturazione del debito mentre insistono che il nostro debito, che non è pagabile, sia rimborsato – parametricamente – dalle fasce più deboli della popolazione greca, i loro figli e i loro nipoti.

Nella mia prima settimana come ministro delle finanze, ho ricevuto la visita di Jeroen Dijseelbloem, presidente dell'Eurogruppo (i ministri delle finanze dell'eurozona), il quale mi ha imposto una scelta brutale: accettare la logica del salvataggio (bailouts) e rinunciare ad ogni pretesa di ristrutturazione del debito altrimenti il nostro accordo sui prestiti sarebbe stato cancellato – con l'implicita ripercussione che le banche greche avrebbero dovuto chiudere.

Sono seguiti cinque mesi di trattative in condizioni di soffocamento monetario e una gestione delle banche indotta, sorvegliata e amministrata dalla Banca Centrale Europea. La scritta era sul muro: se non ci fossimo arresi, ben presto avremmo dovuto affrontare controlli di capitale, bancomat poco funzionanti, una prolungata vacanza delle banche e, infine, la Grexit.

La minaccia dell'uscita della Grecia ha avuto un andamento altalenante. Nel 2010 spaventava a morte i finanzieri dato che le loro banche erano colme di debito greco. Anche nel 2012, quando il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, decise che i costi della Grexit erano un investimento proficuo per disciplinare la Francia ed altri paesi, la prospettiva continuava a destare grande preoccupazione.

Quando Syriza è salita al potere lo scorso gennaio, a conferma di quanto noi abbiamo sostenuto, ovvero che i bailouts non intendono affatto salvare la Grecia (bensì costruire un recinto attorno all'Europa Settentrionale, un'ampia maggioranza al'interno dell'Eurogruppo – sotto la tutela di Schäuble – ha considerato la Grexit come il loro esito favorevole o come arma da usare contro il nostro governo.

I greci, giustamente, tremano al pensiero dell'amputazione dall'unione monetaria. Uscire da una valuta comune non è come abbandonare uno standard monetario, come la Gran Bretagna fece nel 1992, quando Norman Lamont ha cantato sotto la doccia la mattina in cui la sterlina abbandonò il Sistema monetario europeo. Ahimè, la Grecia non ha una moneta la cui parità con l'euro possa essere tagliata. Ha l'euro – una valuta straniera completamente amministrata da un creditore ostile a ristrutturare il nostro insostenibile debito nazionale.

Per uscire, dovremmo creare una nuova valuta dal nulla. Nell'Iraq occupato, ci è voluto un anno per introdurre nuove banconote, circa 20 Boeing 747, la mobilitazione della potenza militare americana, tre stamperie e centinaia di camion. In assenza di tale supporto, l'uscita della Grecia equivarebbe ad annunciare una grande svalutazione con 18 mesi di anticipo: una ricetta per liquidare tutto lo stock di capitale greco e trasferirlo all'estero con ogni mezzo disponibile.

Con la Grexit che rinforza la gestione delle banche da parte della BCE, il nostro tentativo di riproporre la ristrutturazione del debito sul tavolo dei negoziati è caduto nel vuoto. Ogni volta ci è stato detto che si trattava di una questione da affrontare in un futuro non specificato, successivo alla completa realizzazione del programma – una situazione davvero paradossale dato che il programma non potrà mai avere successo senza una ristrutturazione del debito.

Questo fine settimana si arriverà al momento cruciale dei colloqui visto che Euclid Tsakalotos, il mio successore, si sta sforzando di rimettere i buoi davanti al carro – per convincere l'ostile Eurogruppo che la ristrutturazione del debito è un prerequisito essenziale per riformare la Grecia, non una ricompensa ex post. Perché è così difficile arrivarci? Vedo tre ragioni.

La prima è che l'inerzia istituzionale è dura da superare. La seconda è che il debito insostenibile conferisce ai creditori un immenso potere sui debitori – e il potere, come sappiamo, corrompe anche i migliori. Ma la terza ragione mi sembra più pertinente e, infatti, è la più interessante.

L'euro è un ibrido tra un regime di tassi di cambio fissi, come l'ERM negli anni '80, o il gold standard degli anni '30, e una moneta di stato. La forza del primo risiede nella paura di essere espulsi, mentre la moneta dello stato implica meccanismi per il riciclo dei surpulus tra stati membri (per esempio, un bilancio federale, vincoli comuni). L'Eurozona sta in mezzo – è più un regime di tasso di cambio che uno stato.

E qui è l'ostacolo. Dopo la crisi del 2008-9, l'Europa non sapeva come reagire. Avrebbe dovuto preparare il terreno per almeno un'espulsione (cioè quella della Grecia) al fine di rafforzare la disciplina? O muoversi verso una federazione? Finora non ha fatto nessuna delle due, con la sua angoscia esistenzialista che cresce sempre di più. Schäuble è convinto che per come stanno le cose, è necessaria la Grexit per risolvere le tensioni, in un modo o nell'altro. Improvvisamente, il debito pubblico greco permanentemente insostenibile, senza il quale svanirebbe il rischio dell'uscita della Grecia, ha acquisito per Schäuble una nuova utilità.

Cosa voglio dire? Dopo mesi di trattative, sono del parere che il ministro delle finanze tedesco voglia che la Grecia venga estromessa dalla moneta unica per spaventare a morte i francesi e convincerli ad accettare il suo modello inflessibile di eurozona.

Quest’articolo è apparso sul Guardian il 10 luglio 2015. Traduzione di Victor Murrugarra.

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