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Lavoro, e non reddito, di cittadinanza

04/06/2013

Il reddito di cittadinanza si configura inevitabilmente come “compensazione ex post” dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non può affrontare in termini strutturali le problematiche che la crisi globale ci pone, a partire dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo

Nel sesto anno della crisi più lunga e più grave del secolo la mia opinione è che gli sforzi ideativi e pratici del governo e delle forze politiche di sinistra dovrebbero concentrarsi sul “lavoro di cittadinanza” piuttosto che sul “reddito di cittadinanza”, anche per l’ovvio motivo che dal “lavoro di cittadinanza” scaturirebbe naturalmente un reddito decente, mentre dal “reddito di cittadinanza” non è detto che scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente. L’Italia deve certamente dotarsi di strumenti, delimitati e circoscritti, di necessaria lotta alla povertà, come il “reddito minimo di inserimento” (che da noi fu introdotto sperimentalmente dal primo governo Prodi e poi soppresso dal duo Berlusconi-Maroni), così come deve allargare e universalizzare gli “ammortizzatori sociali” legati alla perdita del lavoro. Ma bisogna avere chiare le differenze tra “lavoro di cittadinanza”, “ammortizzatori sociali”, varie forme di “reddito minimo”, “reddito di cittadinanza”, quest’ultima un’ipotesi molto più ampia di quelle stesse di “reddito minimo”, non solo per gradazione ma per qualità e natura, perché con esso si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale e incondizionato.

Le ragioni del mio non optare per la strategia di “reddito di cittadinanza” non attengono solo a problemi di costo: questi sarebbero immensi – al punto che Gnesutta parla di centinaia di miliardi di euro –, a fronte del limitato ammontare che sarebbe richiesto da un “Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne” (come quello contenuto nel “Libro bianco. Tra crisi e grande trasformazione”, Ediesse, da me curato per la Cgil, il quale potrebbe avere inizio con progetti, ispirati al New Deal di Roosvelt, di 1 o 2 miliardi di euro). Un costo così illimitato rende il primo semplicemente irrealizzabile e il secondo assai più credibile, se ci fosse, però, una volontà politica ben altrimenti radicale.

Ci sono anche ragioni più sostanziali, così sintetizzabili: 1) la crisi globale sta avendo implicazioni sulla disoccupazione e sull’occupazione che i democratici americani non esitano a definire job catastrophe e questo richiederebbe la mobilitazione di tutte le energie sulle problematiche del lavoro. 2) La motivazione con cui prevalentemente si giustifica il “reddito di cittadinanza” è del tipo “tanto il lavoro non c’è e non ci sarà”, con il quale, però, il “reddito di cittadinanza” viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe ad essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde. 3) Uno strumento monetario – quale è il reddito di cittadinanza – si configura inevitabilmente come “compensazione ex post” dei disagi derivanti dalla mancanza di lavoro e non come “promozione ex ante” del lavoro e di altre opportunità che è tipica, invece, della fornitura di strutture e di servizi, ritrovandosi così nell’impossibilità di affrontare in termini strutturali le problematiche strutturali che la crisi globale ci pone, a partire dalla necessità di ridisegnare l’intero modello di sviluppo. 4) Le ipotesi di “reddito di cittadinanza” sono sostenute in prevalenza con il presupposto che esso assorba molte delle prestazioni monetarie e dei servizi del welfare state – questo è anche il suggerimento di Gnesutta – il quale, al contrario, in una fase in cui l’austerità autodistruttiva riporta in auge le privatizzazioni innanzitutto della spesa sociale, andrebbe rafforzato e riqualificato.

Su alcuni degli elementi richiamati vorrei argomentare più dettagliatamente, a partire dalla domanda su quali riteniamo essere le priorità in materia economico-sociale che le democrazie contemporanee debbono fronteggiare nella fase odierna. Solo dalle priorità, infatti, si può ricavare l’adeguatezza delle misure/risposte in gioco. A me parrebbe che le priorità siano oggi le seguenti: fornire risposte strutturali ai problemi strutturali che presentano le economie e le società avanzate (e strutturali vuol dire richiedenti trasformazioni radicali, non congiunturali, non adattive); riproporre una concezione della giustizia che stressi, accanto alla libertà, l’eguaglianza e le capacità fondamentali.

E qui dobbiamo ulteriormente chiederci: la strutturalità dei problemi delle economie europee – di cui la coesistenza di eccessi di capacità produttiva in alcuni settori e di deficit in altri e le divergenze di competitività, rafforzate dal mercantilismo della Merkel che mette a rischio la stessa sopravvivenza dell’euro, sono uno dei segnali – sarebbe scalfita mediante mere misure di trasferimento monetario del tipo “reddito di cittadinaza”? Io penso di no. Agire sull’intreccio strutturale richiede politiche altrettanto strutturali, ben diverse da semplici trasferimenti monetari compensatori, modellate sulla base di un forte e qualificato ruolo dell’operatore pubblico, da esercitare non solo mediante indirizzo e regolazione, cioè governance, ma anche tramite diretta gestione, amministrazione e government.

La strutturalità dei problemi risalta ancora di più se teniamo conto delle caratteristiche del mondo globalizzato odierno: la complessità delle dinamiche dei mercati del lavoro evidenzia, oltre e accanto alla precarizzazione crescente, un blocco delle dinamiche retributive e una incapacità da parte della forza-lavoro di acquisire i guadagni di produttività, tutte questioni alle quali si può rispondere solo con nuovi schemi retributivi e con complesse politiche concertative; gli assetti produttivi sono complicati da intensi e sregolati processi di finanziarizzazione e da dinamiche di trasformazione della natura degli investimenti, delle funzioni della Ricerca e Sviluppo, del ruolo del capitale umano; le condizioni di vita si differenziano in base a una molteplicità di variabili e nessuna condizione si manifesta in forma semplice, al problema della povertà, per esempio, si affianca crescentemente un problema di ceti medi e di incremento dell’opulenza dei ceti benestanti, la povertà stessa si complica attraverso la sua femminilizzazione, la sua territorializzazione, la sua cronicizzazione e così via.

Poiché l’ipotesi di “reddito di cittadinanza” viene avanzata anche con riferimento alla necessità di aumentare la “libertà di scelta” dei cittadini, una sua inadeguatezza emerge altresì se si vuole riproporre una concezione della giustizia che stressi, accanto alla libertà, l’eguaglianza e le capacità à la Amartya Sen. Questo, infatti, è molto impegnativo. Mere ipotesi di trasferimento monetario da un lato esaltano la libertà (specie come libertà di scelta sul mercato) in termini tali da smarrire il suo rapporto con l’eguaglianza, dall’altro adottano una visione di eguaglianza (come mera parità formale dei punti di partenza) non all’altezza dell’impegno richiesto dalle capacità. L’esaltazione della libertà scissa dall’eguaglianza e dalle capacità fondamentali rischia di farci rimanere acriticamente vittime della tirannia dei luoghi comuni imposti dal neoliberismo: per enfatizzare la facoltà di scelta si giunge a fare del rischio “uno stile di vita”, come dice ironicamente Stiglitz (sottintendendosi con ciò il rigetto dell’idea stessa dell’assicurazione sociale obbligatoria); l’azione dei governi è visualizzata come sempre e comunque negativa e la pubblica amministrazione come sostanzialmente irriformabile, alle quali preferire trasferimenti monetari indifferenziati, benefici fiscali, esternalizzazioni verso il privato; l’istituto della tassazione è letteralmente demonizzato, presentato come “confisca” e “esproprio” dei cittadini da parte dello Stato, perdendosi così di vista il suo carattere di contributo al bene comune e di strumento di esercizio della responsabilità collettiva (esprimentesi tanto nel finanziamento di fondamentali funzioni pubbliche quanto nella redistribuzione).

Strumenti monetari tipicamente indifferenziati, elevati e generalizzati, che rischiano di proporsi come strumento unico con cui risolvere una marea di problemi aventi, viceversa, bisogno di policies articolate, mirate, concrete, non sono in grado di incidere davvero sulle problematiche intrinseche alla volontà di rimettere al centro la giustizia. All’opposto, essi possono rafforzare alcuni rischi: che i veri problemi odierni (in particolare la questione del funzionamento del mercato nella globalizzazione) rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto ad essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato e sanzionato; che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto (per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato).

Si spiega così perché tanta preoccupazione possano suscitare le ipotesi di “reddito di cittadinanza”. Lo fa la versione neoliberista con cui essa si presenta come compimento del “conservatorismo compassionevole”: riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella “imposta negativa” di Milton Friedman. Ma lo fanno anche versioni più nobili, come quella di Van Parijs, che tuttavia finiscono con l’avvalorare l’immagine di uno stato sociale “minimo”, non troppo diverso da quello “residuale” ipotizzato dalle destre, specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione (parziale o totale) verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento. Così tali proposte, oltre a comportare costi enormi (che le rendono del tutto irrealistiche nei fatti, ma sempre devianti sul piano culturale), non danno la garanzia che l’auspicata maggiore “libertà di scegliere” non si riveli per gli svantaggiati del tutto illusoria. Esse, infatti, rischierebbero di funzionare come sanzione e cristallizzazione proprio della precarizzazione e “dualizzazione” del mercato del lavoro, non offrirebbero risposte alla drammatica femminilizzazione, territorializzazione e cronicizzazione delle condizioni di povertà – dirette conseguenze della carenza dell’offerta di servizi e di interventi correttivi qualitativamente diversificati (come un trasferimento monetario non può mai essere) –, si sostituirebbero all’attivazione di nuove strategie di inclusione sociale, le quali dovrebbero, invece, essere rivolte soprattutto a giovani e donne e articolate in politiche mirate per lavoro, formazione, condizioni abitative, reinserimento e così via.

Oggi servono proprio politiche economiche governative orientate alla “piena e buona occupazione”, politiche straordinariamente “non convenzionali” (tanto “non convenzionali” quanto lo sono le politiche monetarie di tutto il mondo, dalla Federal Reserve americana alla Bce europea, dal Regno Unito al Giappone) del tipo di quelle – esplicitamente ispirate al New Deal di Roosvelt – che Obama persegue negli Usa, volte a fare del motore pubblico il volano di un nuovo ciclo di investimenti e di generazione di lavoro. Non si tratta, infatti, solo di rilanciare la crescita, si tratta altresì di cambiarne in corso d’opera qualità e natura, ponendo le basi di un nuovo modello di sviluppo. Concretamente i campi di estrinsecazione di una progettualità di questo genere sono molteplici, dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualificazione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio del welfare state. La creatività istituzionale del New Deal è un antecedente a cui ispirarsi, come lo sono il Piano del lavoro della Cgil del 1949 e l’antiveggente proposta di Ernesto Rossi di innestare la generalizzazione del servizio civile nella creazione di un grande “Esercito del lavoro”, facendo uscire dal dimenticatoio nobilissimi strumenti dell’eredità keynesiana, tra cui la figura del “lavoro socialmente utile”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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