Tonino Perna propone di ridurre l'orario di lavoro per estendere il numero di posti di lavoro. Ma una generalizzazione dell'impiego part time può essere sostenibile solo se affiancata da un reddito di cittadinanza
Sul Manifesto del 30 maggio Tonino Perna rilancia la necessità di ridurre l’orario di lavoro a 4 ore di lavoro per estendere i posti di lavoro. Una proposta motivata dalla situazione critica che registra l’occupazione in questa fase di depressione economica, ma che, a ben guardare, rimane valida per i suoi caratteri strutturali anche nei prossimi decenni.
Stante l’attuale modalità con cui sono regolati i rapporto di lavoro a tempo pieno, la massima occupazione prevedibile non potrà riguardare nel futuro che poco più del 50% della popolazione in età di lavoro (ovviamente, non sempre le medesime persone); una situazione, quindi, di precariato quasi universale. È quindi corretto sottoporre fin da subito, e forse siamo già in ritardo, la questione dell’ampliamento dei posti di lavoro che implica inevitabilmente una redistribuzione della massa di ore lavorate fra le molte persone in cerca di lavoro. Una tale prospettiva si pone all’interno di una visione politica ed economica profondamente diversa, in quanto implica, come cercherò di argomentare, innovazioni a livello non solo della politica per l’occupazione, ma anche a livello del sistema di tassazione, di quello pensionistico, dell’istruzione e della formazione, dell’organizzazione produttiva delle imprese. Questa complessità si coglie anche nell’intervento di Perna da cui ho preso le mosse.
La redistribuzione del lavoro potrebbe avvenire con una sorta di contratto di solidarietà nazionale e dovrebbe intrecciarsi con le proposte da varie parti avanzate su un reddito di cittadinanza, temi ora al centro di una discussione sul sito old.sbilanciamoci.info (le mie proposte sono qui: http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Garantire-il-reddito-o-il-lavoro-Una-ricomposizione-possibile-18166). A mio avviso una redistribuzione del lavoro che generalizzi l’impiego part-time può esser resa economicamente sostenibile se affiancata da un reddito di cittadinanza (di carattere universale, in prospettiva). Un reddito (sulle cifre ci si può sbizzarrire) che garantisca al soggetto (lavoratore o meno) condizioni “minime” di sopravvivenza qualora rimanesse privo di un impiego (pubblico o privato). Un reddito esente fiscalmente (inclusi i contributi), che è pagato dall’impresa che assume il lavoratore ed è pagato dall’amministrazione pubblica quando è disoccupato.
Ovviamente, all’espandersi dell’occupazione il reddito di cittadinanza non grava sull’amministrazione pubblica perché è pagato dalle imprese e dall’ente pubblico che assume il lavoratore. Perché questo meccanismo operi efficacemente è necessario che si ampli il numero degli occupati (anche a parità di ore di lavoro); è necessario espandere i contratti part-time (20 ore settimanali) la cui remunerazione costituirebbe un’integrazione del reddito di cittadinanza pagata sempre dalle imprese e dall’amministrazione pubblica. Il sindacato avrebbe un importante ruolo nel definire, a livello nazionale, il quadro normativo che regolamenta questo tipo di rapporti che dovrebbe andare a sostituire le molteplici forme di precariato introdotte in questi ultimi decenni. D’altra parte, la politica fiscale dovrebbe differenziare la pressione fiscale e contributiva sui contratti part-time rispetto a quelli full-time per favorirne l’estensione. Le imprese trarrebbero vantaggio da questa defiscalizzazione (decontribuzione totale del reddito di cittadinanza e parziale del lavoro part-time) con effetti sull’emersione del lavoro nero, e i lavoratori si avvantaggerebbero in termini di salario minimo e di sicurezza (minima) di fronte alla perdita di lavoro, sia che essi siano giovani sia che siano anziani.
Posta la rilevanza del problema, nessuno si nasconde la complessità di una tale prospettiva di politica economica. Reddito minimo più redistribuzione del lavoro sarebbero un cambiamento profondo, che richiede nuove regole del mercato del lavoro, dell’organizzazione produttiva, della struttura dell’imposizione fiscale, del sistema pensionistico. Significa rovesciare la politica economica orientandola a sostegno delle esigenze (minime) di quella crescente area di popolazione che vive con preoccupazione il proprio futuro e con sfiducia la possibilità di avere una risposta dall’attuale classe dirigente che ormai centellina gli spiccioli.
Ovviamente, è una prospettiva che richiede un impegno politico e finanziario di non poco conto, ma soprattutto si tratta di una riflessione collettiva necessaria, per discuterne gli aspetti etici e tecnici, economici e sociali; una riflessione capace di “cambiare” fin da subito il modo di guardare il nostro futuro e l’impegno per trasformarlo.
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