La rotta d'Italia. La flessibilità non è mai abbastanza, secondo il Sole 24 Ore. Perfino la riforma Fornero è sotto accusa: la colpa della crisi è sempre del lavoro. Ma i fatti sono ben diversi
Abbiamo il PIL in picchiata: nel 2012 -2,2% rispetto all’anno precedente, con una valore tendenziale di -2,7%. Un bel risultato frutto delle politiche miopi di austerità. Ma non si perde il vizio di suonare la solita musica.
Venerdi 15 febbraio la prima pagina del Sole24Ore (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-02-15/lezione-lindustria-063555.shtml?uuid=AbVTjcUH), scambia le cause con gli effetti. Le cause della crisi sarebbero, ovviamente, la scarsa flessibilità del mercato del lavoro, sempre insufficiente per far decollare le assunzioni, e poi le regole più rigide nelle assunzioni dei precari, introdotte dalla riforma del 2012. Qui risiede la colpa del mercato del lavoro italiano, e del Pil in picchiata dal 2009.
Raccogliendo il monito dell’Ocse, si afferma a commento dei dati sul PIL: “La protezione di stampo prettamente "giuslavorista" del posto a discapito del reddito ha creato solo iperregolazione e scarsa produttività che oggi paga tutto il sistema”. Quindi sappiamo ora chi è il responsabile del declino della produttività italiana, anzi chi sono i colpevoli: i “giuslavoristi”. Vedremo come questi si difenderanno da questa accusa impietosa.
Come economisti possiamo affermare che ciò corrisponde al falso. Lo dicono le ricerche scientifiche.
1) L’abbassamento delle tutele sul lavoro non produce effetti positivi sulla produttività del lavoro, anzi porta le imprese a perdere ulteriore produttività inducendole a recuperare lo svantaggio tramite la riduzione del costo del lavoro mediante contratti flessibili.
2) L’Italia è fanalino di coda nell’adozione delle innovazioni organizzative ed in quelle specifiche dell’organizzazione del lavoro; peggio di noi fan solo alcuni paesi prettamente “industriali” (sic!) quali Malta, Turchia, Grecia, Cipro, e meno male che in questo gruppo di paesi europei delle worst work organization practices troviamo anche l’Ungheria, assieme a noi, mentre le best work organization practices sono appannaggio di Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda.
3) L’Italia da fine anni novanta ha ridotto le norme di protezione all’impiego, operando sia sulle regole di entrata che su quelle di uscita dal mercato del lavoro e dal posto di lavoro, come pochi paesi hanno fatto in Europa, tanto che se più di un decennio fa eravamo indubbiamente tra i paesi europei con maggiori protezioni, ora siamo tra i paesi con meno protezioni.
4) Nello stesso periodo nel quale si arricchiva la deregolamentazione del mercato del lavoro, la produttività nell’industria è stata stagnante, e quella nei servizi in diminuzione.
Inoltre, si sostiene che “la riforma Fornero, che in un primo tempo aveva come obiettivo quello di disboscare proprio quelle norme, ha ottenuto in realtà l'effetto contrario: l'aumento di vincoli alla flessibilità in entrata ha indotto le imprese a sospendere le assunzioni di personale a tempo (stop a contratti a termine e a contratti a progetto) e l'avvitamento che il Parlamento ha prodotto sul nuovo articolo 18 non ha garantito quella flessibilità in uscita che era anch'essa obiettivo primario della riforma del lavoro”.
Quindi una riforma mal concepita avrebbe accresciuto le rigidità in entrata, senza liberare le imprese dai vincoli di licenziare; il vituperato articolo 18 che sempre viene “suonato” come un “mantra”: liberateci di questo e le imprese italiane avranno il vento in poppa e quelle straniere godranno di ponti d’oro per investire in Italia.
Che poi sia falso che la flessibilità in uscita e le norme di protezione ai licenziamenti in Italia siano più rigide di quelle di altri paesi europei (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Le-fandonie-sui-lavoratori-troppo-protetti-13205) ha ben poca importanza. Ciò che conta è il messaggio ideologico.
La realtà è ben diversa. La realtà si chiama anzitutto falso in bilancio, truffe, tangenti e corruzione, scandali finanziari, gestioni clientelari delle imprese pubbliche e pessima finanza per quelle private. La realtà di chiama criminalità economica e connivenza politica.
E poi la realtà si chiama bassi investimenti in quello che conta per la competitività delle imprese, ovvero, ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica, di prodotto e di processo, innovazione nell’organizzazione della impresa e del lavoro, politica industriale che vuol dire infrastrutture materiali ed immateriali, istruzione e formazione, piano dei trasporti e piano energetico, riassetto e tutela del territorio, investimenti nell’economia verde e nella economia della conoscenza.
E poi la realtà si chiama declino dei redditi da lavoro, e dei sistemi di welfare, crescita delle disuguaglianze, sociali ed economiche, che producono una crisi da domanda interna come da decenni non si era vista. Una crisi non compensata certo dalla domanda estera che ristagna e sulla quale le imprese italiane competono poco sulla qualità e più sui prezzi, perdendo le sfide come è giusto che sia nel mondo globalizzato. Perché non si può riuscire a fare concorrenza con l’Est dell’Europa, con Cina e India, con Indocina ed Indonesia, con l’America Latina, se si producono le stesse cose che loro producono ma a costi 100 volte inferiori, e se non si producono prodotti e servizi a più alto valore aggiunto, che peraltro questi paesi già sono in grado di produrre e di abbinare ai propri prodotti .
E poi la realtà si chiama domanda aggregata che ristagna in Italia come nell’Europa dell’Euro, una Unione e Stati che mancano nelle politiche di crescita e che invece distribuiscono il rigore sui paesi e sulle categorie sociali più deboli. Una Europa che su decisione del Consiglio Europeo scrive un bilancio pluriennale di austerità da qui al 2020 che rischia anche di affossare i programmi futuri dell’Agenda 20-20-20.
La svolta “rooseveltiana” di Obama a cui pure il Sole24Ore fa il verso è male intesa, e male declinata: la ripresa della “produttività dell'economia reale dopo le sbornie della turbofinanza, con la consapevolezza che il nuovo driver del rilancio non può che essere l'industria manifatturiera” non può essere affidata a minori tutele del lavoro e alla crescita della disuguaglianza, ma in più tutele e meno disuguaglianza. Proprio l’opposto. E si può sorreggere solo su più investimenti in conoscenza e in economia verde. Tra tutele e uguaglianze, da un lato, e investimenti in knowledge and green economy, dall’altro, non vi è un trade-off, ma sinergie. La Confindustria italiana comprende questo, e si impegna sia a richiedere e a progettare politiche utili, sia a guidare le imprese nell’intraprendere seriamente percorsi innovativi? Oppure siamo ancora all’epoca delle svalutazioni competitive?
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