Prezzi che crescono più dei salari e aumenti di produttività che non sono più trasferiti in paghe più alte. Questa la fotografia del Rapporto mondiale sui salari dell’ILO, una misura di quanto il lavoro perde terreno
L’International Labour Office (ILO), agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei temi del lavoro e della giustizia sociale, ha pubblicato il Global wage report 2012-13 con un’analisi sullo stato dei salari e della distribuzione del reddito a livello mondiale.(1) Le conclusioni confermano le critiche all’attuale sistema economico e, dati alla mano, auspicano interventi in quei meccanismi che stanno generando forti disuguaglianze sociali, a cominciare dalle misure di austerity.
Il Report è suddiviso in due parti: la prima si concentra sui dati, e l’analisi di questi, per le economie sviluppate e in via di sviluppo (in quest’articolo terremo in considerazione esclusivamente le prime) e una seconda parte di analisi “qualitativa” delle criticità emerse dai dati, ripercussioni a livello macroeconomico di domanda aggregata e “aggiustamenti” possibili per riorientare la rotta.
Il 2009 per i Paesi maggiormente sviluppati è stato l’anno della “Grande recessione”, l’inizio del 2010 ha fatto intravedere una ripresa anche oltre le aspettative, ma la crisi dei debiti sovrani e le misure di austerity, soprattutto in Europa, hanno contribuito in maniera significativa ad una decelerazione globale della crescita. Il Report si concentra sullo studio delle variazioni dei salari prendendo come riferimento il salario medio mensile in termini reali. Nei paesi avanzati i salari reali annuali hanno avuto una doppia caduta, nel 2008 e nel 2011; come risulta dal grafico qui sotto, in questi anni gli alti livelli d’inflazione hanno superato i salari medi nominali, provocando una caduta dei salari reali, e l’inflazione non è stata causata dalle rivendicazioni salariali, che negli anni precedenti erano rimaste stabili. Il 2009, invece, è un anno di caduta congiunta sia dei salari nominali che dei prezzi al consumo.
Che rapporti ci sono invece tra occupazione e salari? Nel periodo pre crisi (1999–2007) la crescita dell’occupazione non sta dietro a quella del PIL, portando a un aumento della produttività, che si traduce in genere (fatta eccezione per Spagna e Italia) in un aumento dei salari. Nel 2009 si contrae il PIL e di conseguenza diminuisce il livello di occupazione; in alcuni casi il lavoro cade più della produzione (Spagna, Irlanda, Portogallo, Bulgaria) mentre negli Stati Uniti il livello dell’occupazione diminuisce nonostante la modesta crescita economica. In questo modo molti paesi hanno mantenuto un aumento della produttività del lavoro nel triennio 2008-11 nonostante la crisi, seguito da un lieve aumento dei salari reali in paesi “forti” come la Germania. Nei paesi della “periferia” dell’Europa invece i salari sono diminuiti in maniera considerevole rispetto alla produttività; in Grecia, dove i salari erano cresciuti più della produttività nel periodo pre-crisi, sono stati costretti a diminuire in seguito ai programmi di austerity. Nel complesso, come mostra il secondo grafico qui sotto, nel periodo di crisi, la relazione tra crescita della produttività e quella dei salari reali è molto debole, con un’elevata eterogeneità delle situazioni dei paesi.
Nella seconda parte del rapporto l’analisi dell’ILO si concentra sulla distribuzione del reddito tra lavoro e capitale, mettendo l’accento sulle cause e sui cambiamenti generati a livello di aggregati macroeconomici (consumi, investimenti, esportazioni). Dal 1980 assistiamo a una progressiva diminuzione dei salari, fatta eccezione per quelli dei lavoratori altamente specializzati, a questa decrescita generale si accompagna quello che l’ILO definisce “the other side of the coin”: l’aumento dei profitti delle imprese, soprattutto nel mercato finanziario. Aumenta così la produttività, ma non i salari reali, e in questo fa scuola la Germania che nell’ultimo ventennio ha visto un aumento della produttività pari al 22,6% con salari reali fermi agli stessi livelli e con una diminuzioei in termini reali nel periodo 2003–2011 dovuta in parte anche alle nuove forme lavorative utilizzate (part-time, minijobs, etc). Il dato più rilevante è il gap nella crescita di queste due variabili; considerando 36 Paesi dal 1999 a oggi, la produttività media è più che raddoppiata rispetto ai salari, come mostra la figura qui sotto.
Quali meccanismi hanno tenuto fermi i salari dei paesi avanzati? La globalizzazione, la finanza, le nuove tecnologie e i cambiamenti nella spesa pubblica e della forza dei sindacati hanno pesato sul modesto aumento dei salari. Il rilievo di questi elementi viene misurati in due intervalli di tempo (1990-1994 e 2000-2004) mostrando che, per le economie sviluppate, la finanza globale spiega il 46% del rallentamento dei redditi da lavoro, il 19% è legato alla globalizzazione, il 10% alla tecnologia e il 25% dipende da spesa pubblica e forza sindacale, dimostrando così come l’impatto della finanza in termini di distribuzione della ricchezza sia stato sottovalutato.
Il Report affronta inoltre gli effetti della diminuzione dei redditi da lavoro sulla domanda aggregata di beni e servizi (consumi delle famiglie, investimenti del settore privato, esportazioni e spesa pubblica). Vengono presi in considerazione i primi 15 Paesi del G20 e i 12 Paesi appartenenti all’Eurozona. I risultati mostrano che a una diminuzione dei redditi da lavoro corrisponde una omogenea diminuzione dei consumi e un aumento delle esportazioni, mentre la relazione con gli investimenti privati è meno chiara: in nove paesi e nell’Eurozona esso corrisponde a livelli più alti di investimento in termini di Pil; non ci sono invece effetti diretti sugli investimenti per altri cinque paesi e Stati Uniti, questo è dovuto al fatto che non sempre i profitti si traducono in investimenti.
Vengono infine individuati tre modelli di riferimento utilizzati per la crescita economica: il modello basato sulle esportazioni e basso costo del lavoro, come nel caso di Germania e Cina che perseguono il surplus della bilancia dei pagamenti; il modello basato sul debito privato e i consumi, come nel caso degli Stati Uniti con deficit della bilancia dei pagamenti (se qualcuno esporta qualcun altro deve necessariamente importare) e seguito anche da Regno Unito, Australia e dai paesi in difficoltà (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna); infine il modello basato sempre sull’aumento della domanda interna ma perseguito con l’allineamento dei salari alla produttività come nel caso della Francia o di alcune economie emergenti come il Brasile.
I vari modelli di crescita, sottolinea l’ILO nella conclusione, funzionano soltanto in contesti molto particolari, mentre la ricetta di ridurre il costo del lavoro imposta con le misure di austerity non necessariamente riesce a riportare la crescita e peggiora le relazioni sociali sui luoghi di lavoro.
Quali soluzioni allora? L’ILO suggerisce misure che favoriscano la connessione tra la crescita della produttività e la crescita dei salari, mentre una ricerca di vantaggi competitivi attraverso un minor costo del lavoro scoraggia l'innovazione e la riqualificazione dell'economia. Un "riequilibrio interno" può iniziare con il rafforzamento delle istituzioni e dei meccanismi per la determinazione dei salari, rafforzando il potere contrattuale del lavoro.
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