L'obiettivo era ottenere la fiducia del Senato e quella virtuale dei mercati. Sulla prima non c'è dubbio, sulla seconda si vedrà. Ma sulla capacità concreta di affrontare i nodi della crisi, c'è molto da preoccuparsi
L’esercizio di “equilibrio” con cui Mario Monti ha costruito il suo governo tecnico – con persone che “garantiscono” le diverse forze politiche, il Vaticano e i poteri forti – non è stato ripetuto nel discorso al Senato sul programma di governo. Le tre annunciate parole chiave – rigore, crescita, equità – sono state declinate con rilievo diseguale, e sempre in chiave liberista.
Molto sul rigore, ma senza discontinuità con Tremonti. Conferma delle misure prese dal governo Berlusconi in risposta alle direttive dell’Europa, pareggio di bilancio in Costituzione e verifica lasciata ad autorità indipendenti. Spending review per tagliare un po’ dovunque spesa pubblica e “costi della politica”, razionalizzazione delle pensioni e della pubblica amministrazione, provincie da abolire con calma, dismissione del patrimonio pubblico, lotta generica all’evasione fiscale. Un po’ meno tasse su lavoro e imprese, un po’ più su consumi e ricchezza immobiliare, affrontando “l’anomalia italiana” della mancata tassazione della prima casa. Niente patrimoniale.
Molto sulla crescita, ma con le stesse ricette liberali praticate da vent’anni. Liberalizzazione dei mercati e professioni, capitali privati nelle infrastrutture, realizzazione della riforma Gelmini per l’università. Niente politiche industriali, niente economia verde. Sul lavoro, riforme da fare “con il consenso delle parti sociali”, contratti a livello d’impresa, nuove regole per i nuovi assunti (senza tutela dal licenziamento, si immagina) e qualche protezione in più per i precari. È per questa via di salari ancora più bassi che il governo punta a recuperare competitività internazionale.
Nulla sull’equità, declinata solo in termini di donne e giovani “esclusi” dal mercato del lavoro a cui si può proporre una fiscalità di favore, ma elogiando la “mobilità a scala europea” che una volta si chiamava emigrazione.
Poco sull’Europa, se non per dire che la fine dell’euro sarebbe la fine dell’Europa, e riconoscere che c’è stato un “difetto di governance europea”: non si spiega quale, né si nomina Angela Merkel, che potrà essere l’osso più duro per Mario Monti nel suo tentativo di tenere l’Italia nell’Unione monetaria e l’Unione in piedi. Non una parola sulla finanza e su come limitare la speculazione contro il debito degli stati. Non una parola sulle politiche di domanda che possono fermare la recessione. Non una parola sul declino della struttura produttiva dell’Italia. Non una parola su disuguaglianze record e povertà.
Ieri l’obiettivo di Monti era ottenere la fiducia sia dal Senato italiano che dal “Senato virtuale” dei mercati finanziari. La prima – grazie a Napolitano – l’ha ottenuta facilmente; la seconda resta sospesa, con la speculazione passata ad attaccare i titoli di Francia e Spagna e le borse in calo. Ma quanto alla capacità di affrontare i nodi della crisi, questo è un programma che non può funzionare.
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