Il “Positive Thinking” è una filosofia di vita negli Usa, diffusa in altri paesi. Vedere il mondo con gli occhiali rosa è però perdere di vista il reale. Un esame critico di Barbara Ehrenreich
Lo scenario prevalente – culturale e politico – possiamo descriverlo così: siamo tutti “sfiduciati”, “pessimisti”, “negativi”. Nei sondaggi e nei media, in conversazioni e riflessioni con amici e colleghi; o se succede di scambiare qualche frase, in autobus o incrociandoci per la strada, con persone che neppure conosciamo. Qualunque sia la questione di cui si parla: la crisi economica e le condizioni dei giovani, difficoltà quotidiane, episodi della vita pubblica. Fa un gran freddo, o invece la primavera è venuta troppo presto.
E le tante dure vicende del mondo: terremoti e tsunami, movimenti di protesta, Lampedusa e l’Europa.
Dunque mi ha incuriosito il libro di Barbara Ehrenreich uscito negli Stati Uniti circa un anno fa, che ritrovato per caso: Bright sided. How the relentless promotion of positive thinking has undermined America (New York, Metropolitan Books). Il tema è il “pensiero positivo”: come questa sia una dimensione fondamentale nei “messaggi” che vengono messi in circolazione e che segnano la cultura della società americana.
Rifletterci mi è sembrato utile, proprio perché noi siamo all’estremo opposto: dunque due processi di “semplificazione culturale” in qualche modo imposti, ma anche accettati. Essere (loro e noi) più articolati, problematici, certo sarebbe bene.
Il libro mette al centro, guardando ad aspetti molteplici del funzionamento della società americana, la “promozione” del positive thinking a partire dagli anni successivi alle pesantissime (anche negli Usa) vicende della II guerra mondiale.
I media, macchina efficace. E il marketing e i processi dell’economia e della finanza. Questi, ovvio, sono gli obiettivi principali dell’analisi. Si parla delle manipolazioni (e delle menzogne) messe in circolo sull’andamento dell’economia, di come si sono tenuti nascosti dati e previsioni negativi, e di come si sia creata, appunto, una “cultura” che ha contribuito a determinare la pesante situazione attuale. Ma vengono anche descritti gli ambiti della scienza medica e le pratiche che in alcune tradizioni religiose hanno ascolto e adesione: la vita quotidiana.
Il lungo capitolo che apre il libro racconta la vicenda dell’autrice: dalla diagnosi alla “vittoria” sul cancro. Descrive la sua discesa nel mondo doloroso della malattia, ma insiste sul contesto, sui messaggi, sulle pratiche che – così lei dice – impongono appunto il “pensiero positivo”: su aspetti ed esperienze di difficoltà e sofferenza, lei dice, silenzio. Solo ottimismo e atteggiamenti positivi.
Un altro pezzo importante del discorso che viene sviluppato insiste su come il positive thinking sia centrale in credenze e insegnamenti di alcuni filoni del protestantesimo. Il “pensare positivo” aiuta a uscire da condizioni di bisogno e a trovare risposte per drammatiche emergenze. La soluzione di molti problemi del vivere si realizzerebbe grazie a convincimenti e pratiche religiose segnati da forte ottimismo, speranza.
Nel libro si descrivono i molti differenti aspetti del quadro.
Si sono affermate e consolidate le “pseudoscienze” (così le definisce l’autrice, ma i nomi ufficiali sono “psicologia positiva”, la “scienza della felicità”). Centri per la ricerca e la formazione. Esperti che offrono (a pagamento, ovvio) le loro prestazioni, corsi e varie sedi di apprendimento; associazioni e gruppi che si costituiscono per perseguire queste finalità. Attraverso reti e siti si formano comunità di individui che agiscono appunto condividendo e scambiandosi informazioni, in una comune convinzione che è il “pensare positivo” che risolve i problemi e, di fronte alle difficoltà della vita, permette di andare avanti. Moltissime le pubblicazioni destinate a raggiungere un pubblico il più possibile vasto. Diventate, negli anni, best seller.
Dunque: se si hanno atteggiamenti positivi si vive più a lungo.
Se si è poveri o disoccupati è perché non si riesce a pensare positivo.
Nella ricerca di un posto di lavoro è fondamentale mostrare spirito positivo. E si verificano casi in cui un dipendente che non ha questo tipo di atteggiamento viene licenziato.
E naturalmente ci sono gli antidepressivi “promossi” dai più affermati studiosi della psicologia positiva: un gran giro d’affari.
Non è una analisi scherzosa, ironica, quella che ci viene presentata. Con dati e riferimenti si descrive come tutto questo si sia radicato a tutti i livelli della società americana. E naturalmente emergono gli interrogativi: la fase attuale, il futuro.
Propongo queste riflessioni come un’occasione per farci qualche domanda. In questa fase pre-elettorale in particolare, anche da noi si mettono in circolo pezzi di “pensiero positivo” (devo dirlo, un po’ “raffazzonato”: a Milano, per esempio, gli innumerevoli cartelloni pubblicitari/elettorali che inneggiano a realizzazioni del nostro sindaco/a e sciorinano promesse per il futuro).
Ma anche un dibattito sulla chiave di lettura da noi prevalente sarebbe utile avviarlo: non tutti siamo passivi, depressi, incapaci di reagire. Lasciarsi presentare, o “manipolare” in senso opposto al “pensiero positivo”, non va bene.
Un percorso, dunque, che sarebbe utile.
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