Un colpo da maestro del presidente francese per far finanziare dallo mano pubblica italiana l’industria nucleare francese
L’accordo Francia–Italia sul nucleare segna una linea coerente del governo, che dal programma elettorale del PdL al rilancio varato da Scajola nel maggio dello scorso anno arriva a un approdo che sembra rendere credibile l’azione proposta. Un’azione accompagnata dal coro generale della grande stampa, per non parlare dei TG, che relega in uno spazio minoritario e tendenzialmente folkloristico le voci di opposizione. Del resto i sondaggi non assicurano una maggioranza di italiani oggi favorevoli al nucleare?
Questo vuol dire che i quattro reattori EPR, di terza generazione, si faranno e, se proprio non nel 2020 come prevede l’accordo, una quota di energia elettrica verrà prodotta dalle centrali nucleari?
Lo scetticismo è ancora d’obbligo, per motivi generali e per alcuni aspetti più specifici e di grande rilievo.
Sul piano generale c’è la storica e riprovevole tradizione italiana - non solo certo di questo governo - del “si parta”. Ché poi, che le cose si facciano o non si facciano, un bel po’ di denaro pubblico verrà in ogni caso elargito ai soliti noti. Sospetto più che legittimo nel caso di questo governo, ma non tutte le ciambelle….
Ancora. Nel rilancio del nucleare il governo incontrerà sulla sua strada un movimento, che ha ripreso a scaldarsi i muscoli fin dai primi annunci dell’anno scorso. Un movimento che nel territorio già trova consensi anche in settori che dovrebbero invece appoggiare la linea del governo, e sempre più si impegnerà per ampliare questa divaricazione. I sondaggi, infatti, quando si passa alla domanda se si è disposti ad avere una centrale nucleare nel proprio comune, riportano oltre il 60% di no.
Infine, proprio sulla materia energetica lo Stato non ha più il potere di decidere da solo perché è, costituzionalmente, concorrente del potere regionale. Certo, già sono stati ventilati articoli di legge per “militarizzare” i siti scelti superando così ogni eventuale opposizione istituzionale. Ma non è un passaggio semplice neanche per Berlusconi. Potrà accettare il secco no scandito dal suo Cappellacci, il neo governatore della Sardegna, ma allora come si mette con i no di Piemonte e Puglia e l’evidente tepidezza di Formigoni?
E veniamo ai rilevanti aspetti specifici.
Con la crisi economica attuale sembrerebbe quasi impossibile trovare un imprenditore che riscopra il gusto del rischio di impresa, rifuggito per anni quando imperversava il cercare di far denaro col denaro senza produrre un accidenti, per avviare una produzione manifatturiera così impegnativa come il nucleare.
Quasi impossibile, ma Sarkozy c’è riuscito con l’imprenditore Berlusconi. Soprattutto perché i soldi non ce li metterà lui, Berlusconi, ma gli italiani. Il nucleare infatti comporta investimenti di capitali colossali e un ritorno di benefici economici molto ritardato, non meno di dodici-tredici anni dopo l’entrata in esercizio delle centrali. Poiché nessun privato può sostenere un tale livello, il nucleare può andare avanti solo con incentivi pubblici, cioè a spese dei cittadini.
E’ un’industria in declino in tutto il mondo, come già lamentava già nel suo rapporto del 2001 l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’energia nucleare (IAEA). Per questo si abbarbica alla mammella dello Stato, di un qualunque Stato, o inventa, come per il reattore in costruzione in Finlandia, un consorzio tra aziende, quelle costruttrici e quelle fortemente “energivore” (siderurgia, chimica).
Tutte operazioni su cui può calare la mannaia del Commissario Ue alla concorrenza.
In sintesi, l’accordo Francia–Italia sul nucleare è un colpo da maestro del presidente francese per far finanziare dallo mano pubblica italiana l’industria nucleare francese. Fornendo inoltre all’EPR dell’aggressiva Areva una maggiore colorazione europea, uno “sdoganamento” molto cercato e non ottenuto né dai tedeschi né, sembra, dai polacchi. Ma non è affatto scontato che tutto fili via liscio.
La tecnologia alla base dell’accordo è poi la terza generazione di reattori. Una risposta tecnologica, tardiva e parziale, all’incidente alla centrale nucleare di Three Miles Island, in Pennsylvania, che alla fine del marzo di trent’anni fa tenne in ansia tutto il mondo. Il problema è che o si ripensa ex novo alla fisica del reattore – come provò Carlo Rubbia all’inizio degli anni ’90, ma senza seguito – o gli innegabili miglioramenti hanno un carattere puramente ingegneristico e non sono in grado di fornire risposte soddisfacenti alle grandi irrisolte questioni del ciclo del combustibile nucleare, l’U235: l’esauribilità dell’U235 (pochi decenni e poi ci scanneremo come per il petrolio?); la proliferazione di armi atomiche, come viene costantemente ricordato a Ahmadinejad; i danni sanitari gravi conseguenti ai rilasci radioattivi, non dovuti a incidenti ma durante il normale funzionamento della centrale; le scorie radioattive più pericolose e quelle di vita media di centinaia di miglia quando non di milioni di anni.
Quei soldi con cui lo Stato italiano finanzierebbe il nucleare sono ovviamente sottratti, in un contesto di risorse limitate drammatizzato dalla crisi economica che in Italia durerà purtroppo più a lungo, alle politiche di promozione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica.
E questo è l’aspetto di gran lunga più grave, da contrastare con la massima determinazione. A parte il nucleare, nel programma del governo il 25% di energia elettrica al 2020 dovrebbe essere dato dalle fonti rinnovabili. Una vera truffa, basta fare due conti. L’energia elettrica rappresenta solo il 20% dei consumi complessivi, e quindi il 25% di rinnovabili rappresenterebbe un misero 5% dei consumi totali. Peccato che l’UE chieda al 2020, e in modo vincolante, che le rinnovabili ricoprano il 20% della totalità dei consumi di energia, non il 5%! L’inadempienza graverà sui cittadini italiani attraverso la bolletta.
Il governo programma insomma di perdere quella competizione che vede in campo Germania, Gran Bretagna, la stessa Francia e pure la Cina. Per non parlare di Obama e di quella rivoluzione energetica promossa proprio dalla UE con i tre 20%, che è la transizione da un modello a alta densità d’energia a uno sviluppo di fonte diffuse sul territorio. Un passo fondamentale verso una società sostenibile.
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