L’austerità è un’arma spuntata contro gli attacchi dei predoni della finanza. E la cessione di potere alla Bce non ci salverà. Riflessioni sul da farsi, a partire dalla lunga estate pazza
Mi impensierisce, in questi giorni di follia internazionale, la confusione mentale di molti di quelli che, sulla grande stampa quotidiana, hanno da dire qualcosa su quanto accade e su cosa bisogna fare. Se il problema del governo è quello dell’agire subito e con decisione, non vi è molto da capire. I margini di tempo e di discrezionalità sono talmente ristretti che non resta che fare, ma subito, il meno peggio, e farlo senza credere nelle favole di chi dice che sia possibile praticare nell’immediato politiche che concilino austerità e sviluppo. Una ricetta per lo sviluppo a breve non l’ha nessuno. Ora è come quando si combatte strada per strada in una città che si pensava felice e ben fortificata. Prima bisogna salvarsi. Ma chi non è coinvolto nei combattimenti, chi ha a che fare con il pensare strategico, dovrebbe riflettere sulle origini lontane e sulle sequenze di eventi e decisioni da cui da ultimo è derivata la falla, al fine di costruire, da domani, un futuro più sensato.
Sosterrò, lungo queste linee, che
(a) le politiche di austerità sono non solo inutili per combattere gli attacchi speculativi, ma dannose, nel senso che giocheranno a favore di nuovi attacchi;
(b) l’idea degli eurobonds non ha alcuna rilevanza nel combattere e nel prevenire gli attacchi speculativi. Gli eurobonds vanno invece usati, insieme ad altri strumenti e in un contesto di bilancio federale e di politica industriale europei, per indurre una nuova fase di sviluppo (ma non penso a qualcosa di genericamente “keynesiano”);
(c) esiste una strada maestra per rispondere agli attacchi speculativi, che è quella di fare della Bce un soggetto prestatore di ultima istanza, non solo nei confronti delle banche ma anche degli stati, come con chiarezza e argomentazioni convincenti è stato indicato indipendentemente e in forme leggermente diverse, proprio in questi caotici giorni, da Paul de Grauwe e da Daniel Gros (www.voxeu.org).
Purtroppo siamo assuefatti, in materia, al contesto di luoghi comuni e di proiezioni culturali che la politica internazionale e i suoi echi di stampa ci pongono sotto gli occhi e non riusciamo a prenderne le distanze. Partirei quindi da qualcosa di immediato, che la nostra assuefazione ha condotto a non considerare grave e anomalo e che invece avrebbe dovuto fungere da campanello d’allarme. Sarebbero partite due lettere ai premier d’Italia e Spagna, firmate dal Presidente della Bce ma controfirmate dai governatori delle due rispettive banche centrali nazionali, con la richiesta dettagliata di assunzione di impegni sulla quantità e sulla qualità delle azioni con riflessi di bilancio pubblico. Avrebbe dovuto esservi grande scandalo per un tale evento, quanto meno sul piano della forma e dei particolari soggetti coinvolti. Le prescrizioni assomigliano infatti più alla determinazione delle penalità imposte dal Trattato di Versailles ai paesi che avevano perso la guerra che a rapporti corretti tra stati sovrani, partner di una Unione Europea che ha speso infinito tempo nel tentare di disegnare una costituzione europea, non riuscendovi. Invece scandalo non vi è stato (parziali eccezioni a me note nella stampa italiana sono Roberto Esposito e Barbara Spinelli, su la Repubblica rispettivamente del 12 e del 17 Agosto).
Il punto essenziale è che non si trattava di condizioni poste e definite dai governi europei in una qualche sede istituzionale, bensì dettate direttamente dal presidente della Bce; da una tecnocrazia, cioè, e controfirmate dai vertici di altre tecnocrazie sorelle; vertici – è bene ricordarlo – designati e non eletti, comunque inamovibili. Sarà che i fondamenti del diritto internazionale spesso non sono solidissimi, ma sono sicuro che in nessuno dei paesi europei esistano elementi giuridici di sostegno alla prassi seguita. Non parlo solo della procedura, ma anche della sostanza. Ed è questo che richiede riflessione, che richiede una diagnosi non delle ragioni del comportamento della Bce, ma del fatto che pochi si scandalizzino. La forma, per certi tipi di decisione, ha un rilievo almeno eguale a quello della sostanza.
Potrebbe sembrare che la giustificazione per accettare senza proteste quanto accaduto sia il carattere di necessità e urgenza (come in Italia per i decreti legge) che tale prassi pretendeva di avere; ovvio che quando sembra si stia affogando tutto sembri lecito. Credo tuttavia la ragione sia ben diversa. Ci siamo abituati ad accettare, per tutto ciò che riguarda i problemi economici, la supremazia delle istituzioni monetarie internazionali, dal Fmi alla Bce. Viene cioè dato per scontato che siano esse a prendere tali decisioni, anche quando non rientrano, statutariamente, nei loro poteri. Ed è questo “dare per scontato” che impedisce di vedere a fondo le ulteriori, nascoste e sottili, “anomalie” che si celano al di sotto della superficie.
Ottemperare alla lettera della Bce era condizione per ottenere la sottoscrizione dei nostri titoli del debito in scadenza e il sostegno dei loro corsi (meno male, visti i tempi). Ma ciò che dava alla Bce la facoltà di negare la sottoscrizione era l’art. 101 del Trattato europeo, un articolo sciagurato che le stesse banche centrali avevano voluto e ottenuto in passato per “affrancarsi” dalle pressioni politiche. Questo articolo infatti consente alla Bce di negare la sottoscrizione quando vuole e al contempo di concederla quando vuole per il tramite delle banche ordinarie. E non è forse l’Art. 101 il figlio lontano dei “divorzi” che le banche centrali dei maggiori paesi del mondo avevano voluto e ottenuto nella prima metà degli anni '80 (la cessione del potere statale di signoraggio, cioè il diritto di stampare moneta) e che erano stati poi rafforzati negli anni 1990, almeno in Europa, dal divieto per le banche nazionali di sottoscrivere direttamente titoli emessi dagli stati (cioè la sostanza dell’attuale Art. 101)?
Ci siamo assuefatti, assuefatti al punto che non ci interroghiamo sull’uso che è stato fatto del potere ceduto (ci sarebbe molto da discutere sull’atteggiamento della Bce in merito all’alimentazione delle bolle speculative, ma per i governi europei si è trattato evidentemente di un argomento tabù). Né riflettiamo su una seconda e ben più rilevante cessione di potere, quella a favore della c.d. “fiducia dei mercati”. Dobbiamo fare certe cose (inutile riassumerle) perché questo è quanto “il mercato si attende”. E chi lo dice, su quali fondamenti? A ben vedere si limita a suggerirlo una semplice associazione di idee: l’attacco speculativo e l’interpretazione che Bce e Fmi ne danno. Ma è una associazione spuria, non appena ci si rifletta. Se infatti il mercato fosse, come solo un atteggiamento ideologico o lobbistico può pretendere sia, quella virtuosa forza che deriva dalle interazioni di un’anonima massa di decisori individuali, come farebbero Fmi e Bce a sapere quel che il mercato si attende? Non sarà che il mercato accetta la visione che di ciò che è bene fare hanno Fmi e Bce? Ma allora esso sarebbe di fatto, pur nella sua infinita, anonima, spontanea saggezza, poco di più e di diverso che il braccio armato del “bene”, quale pensato dalle tecnocrazie di Fmi e Bce. Saremmo insomma ad una delle tante varianti delle crociate.
Sono in molti a sapere che le cose non stanno così. I mercati finanziari sono guidati e sfruttati da speculatori professionisti. Essi “lanciano” delle operazioni al ribasso (ma non solo), danno inizio al ribasso vendendo in modo concentrato titoli o divise di cui si sono approvvigionati a ritmi lenti, gli stessi titoli che al contempo vendono anche a termine (cioè con impegno di consegna differita), nella fiducia che il ribasso venga potenziato dalle vendite operate dalla massa di chi, possedendoli, li vende per paura (chiamiamo pure questa massa il “parco buoi”). Da notare un’altra cosa che tutti gli esperti sanno: per operare tali manovre i mezzi propri degli speculatori sono una piccola frazione dei fondi totali che essi mobilitano, in quanto i fondi propri sono moltiplicati, di 10-20 volte o perfino più, da una leva finanziaria notevole assicurata da banche d’affari che in ciò trovano il loro tornaconto.
Il problema degli speculatori è solo l’occasione e il timing del lancio delle operazioni intorno ai quali imperniare le più opportune manovre di manipolazione delle informazioni. In questo entrano, per opportunismo, impudenza o peggio, le agenzie di rating (Krugman in un recente articolo su la Repubblica ha incisivamente argomentato quanto Standard & Poor’s si inaffidabile e perché). Il “mercato” del quale stiamo parlando, cioè, non è certo quello le cui virtù vengono tanto mitizzate, quello dei grandi capitani di impresa, dai Krupp agli Steve Jobs; non è il mercato in cui la borsa serve essenzialmente per acquisire il capitale di rischio e per arbitrare il “vero” valore delle aziende. E non è nemmeno una lotteria governata dal caso.
I problemi che stiamo incontrando oggi, quindi, non stanno nel semplice fatto che esistano le attività speculative appena dette. Sta, certo, nella massa di liquidità che tali speculatori riescono a usare. Ma sta, soprattutto, nella enorme e inflazionata massa di titoli finanziari detenuti in varie divise il cui valore eccede quello della capacità produttiva (quello che ho appena chiamato il “vero valore” delle sole aziende produttive). È infatti tale secondo stock, detenuto dal parco buoi per vari motivi (cautelari, pensionistici, ecc.), quello che consente agli speculatori professionisti di ingigantire a dismisura le variazioni di valore da loro innescate, inducendo i fenomeni di “crisi di fiducia”.
Ciò dischiude un ulteriore duplice terreno di riflessione: la difficoltà di contrastare movimenti di stock con manovre operate su grandezze di flusso (tasse e spese) e come si siano potuti formare degli stock così ingenti, cui si fa spesso riferimento con termini come “paper economy” e “finanziarizzazione” delle economie. È un discorso da sviluppare in una seconda parte dell’articolo.
Ho ricondotto – a conclusione della prima parte dell’articolo – il successo degli attacchi speculativi alla loro capacità di indurre vendite da parte di quello che ho chiamato il “parco buoi”. I soggetti politici che contano, invece – le tecnocrazie monetarie, il Tea Party negli Usa, i partiti di maggioranza in Germania – le riconducono ad un eccessivo rapporto tra debito pubblico accumulato e Pil e fanno leva, per contrastarlo, su manovre fiscali. Si pretende in tal modo di mettere ordine in qualcosa che ha a che fare con variazioni di valore di stock di ricchezza agendo su grandezze economiche di flusso, quali sono le imposte (normalmente funzione di redditi e valori aggiunti correnti) e le spese pubbliche. Ma i valori degli stock sono un multiplo dei valori dei flussi. Per avere un’idea dello squilibrio tra i due tipi di grandezza si pensi che è un po’ come se il proprietario di una casa il cui valore commerciale in un certo anno è considerato di 200.000 euro ed è affittata a 10.000 euro all’anno, a seguito di una crisi del mercato delle abitazioni che fa scendere il valore della casa del 5%, a 190.000 euro, pretendesse di rifarsi raddoppiando il canone di affitto.
La pretesa dei sostenitori dell’austerità fiscale è in effetti di portata (solo apparentemente) più modesta. L’austerità – dicono – sarebbe la dimostrazione data al mercato della serietà delle intenzioni per il futuro. Piuttosto fragile, come argomento! Per quali buone ragioni il fantomatico mercato, di cui nella prima parte dell’articolo ho descritto le vere fattezze, dovrebbe considerare “sufficiente” un qualsiasi livello di austerità sui flussi e non un altro? Tanto più che, se le considerazioni che ho già sviluppato sulla reale natura del mercato sono corrette (e francamente non temo smentite) gli speculatori sono pronti a scatenare una nuova offensiva non appena vi siano notizie tali da far riprendere le vendite di titoli da parte del parco buoi. Ed è inevitabile che tali notizie emergano.
Infatti le grandezze di flusso – reddito e prodotto nazionale – e gli indicatori ad essi connessi – di occupazione, di crescita – non sono indipendenti da tasse e spese pubbliche. L’austerità non può che avere effetti depressivi su tutte le grandezze di flusso; in altri termini non può che indurre tendenze recessive, creando in tal modo le premesse di nuovi e diversi attacchi speculativi, sia perché qualsiasi indicatore collegato alla recessione – disoccupazione, produttività, competitività – può essere usato dagli speculatori professionali come un segnale da sfruttare per lanciare nuovi attacchi, sia perché, in ogni caso, il rapporto tra debito pubblico accumulato e Pil non migliorerebbe di molto e potrebbe addirittura peggiorare. Se davvero si volesse – e sarebbe oltremodo opportuno – far diminuire l’importanza relativa del debito accumulato, l’unica via sarebbe quella di indurre maggiore sviluppo delle grandezze di flusso: produzione, investimenti produttivi, trainati da consumi interni e da esportazioni. Ma questo è uno scenario che viene escluso dal fatto che tutti i paesi, anche quelli che non dovrebbero, guidati da feticci e da profonde incomprensioni di ciò che sta succedendo, si stanno avventurando sulla strada dell’austerità.
Lascio in sospeso per un momento la questione di quali possano essere le alternative. Voglio prima chiarire – perché fornisce utili elementi diagnostici e terapeutici ancor oggi – la posizione sostenuta da Keynes a Bretton Woods nel 1944; una posizione che venne sconfitta allora dalla delegazione statunitense e che è stata riabilitata solo di recente e – devo dire – del tutto inutilmente dal Governatore della Banca centrale cinese (Zhou Xiaochuan nel 2009), nonché da un rapporto dello stesso Fmi (rapporto nel 2010 dello Strategy, Policy and Review Department).
A Keynes non stava solo a cuore che la liquidità internazionale venisse assicurata da una banca mondiale che emettesse moneta di riserva (il Bancor) il cui scopo era quello di bilanciare transitoriamente gli squilibri del commercio internazionale, ma il fatto che a seguito di squilibri i paesi in attivo fossero costretti in breve tempo ad aumentare i loro consumi e le loro importazioni da parte dei paesi in deficit. Questo obbligo avrebbe dovuto fare da contraltare ad interventi restrittivi mirati nei confronti dei paesi in difficoltà. Il fallimento di Bretton Woods con l’abbandono della convertibilità del dollaro (1971) ha dato ragione a Keynes sulla impossibilità di usare una moneta nazionale quale il dollaro Usa come moneta di riserva. Ora è il momento di dargli ragione anche sull’esigenza di obbligare i paesi forti a praticare politiche espansive, sia pure con opportune qualificazioni in materia di politiche per lo sviluppo, nonché per chiarire ulteriori virtù che avrebbe potuto avere il Bancor. Vediamo meglio.
Sotto l’ipotesi che la creazione di moneta per accompagnare la crescita nei singoli paesi fosse affidata ai rispettivi governi e subalternamente ad essi alle singole banche centrali (l’intangibilità del diritto statale di signoraggio era a quei tempi fuori questione), il ruolo del Bancor sarebbe stato quello di sanare squilibri negli interscambi tra paesi, squilibri resi transitori proprio dalla doppia lama di forbice costituita dagli obblighi imposti sia ai paesi in avanzo che a quelli in disavanzo. Di conseguenza per un verso non era pensabile una crescita fuori controllo della moneta di riserva, per un altro il Bancor appariva una istituzione capace, per i paesi partecipanti, di associare principi di responsabilità ad elementi di garanzia e affidabilità idonei a rassicurare i mercati ed evitare attacchi speculativi. Prevalse (per ovvie ragioni di equilibrio politico internazionale) la proposta di usare il dollaro statunitense come moneta di riserva. A lungo andare tuttavia sarebbero emerse delle contraddizioni tra la politica monetaria nazionale, rivolta agli obbiettivi interni, e la politica monetaria globale, come posto in evidenza da Robert Triffin fin dal 1960. Ma c’è di più.
Una rilevante quota dei dollari emessi per finanziare il commercio internazionale e/o le importazioni degli Usa prima, successivamente anche una quota rilevante di altre divise accettate quale mezzo di pagamento internazionale, usate, anche in questo caso, per finanziare il commercio internazionale e/o le importazioni dei paesi emittenti, anziché andare ad alimentare una maggiore domanda di merci (tendenzialmente equilibrando in espansione, tra i diversi paesi, i flussi di merci e di servizi prodotti), è stata “risparmiata” e tenuta sotto forma di stock di ricchezza relativamente liquidi. Ciò che da un lato ha contribuito (all’inizio solo virtualmente, come dirò) a rallentare i ritmi di crescita delle economie inizialmente più progredite, dall’altro è andata a costituire il nucleo forte degli stock di liquidità ora usati a fini speculativi.
A mio avviso, poi, tali fenomeni sono stati rafforzati, in una buona parte dei paesi ad eccezione degli Usa, da una tendenza ad una formazione di risparmio monetario in eccesso rispetto a quanto usato per finanziare gli investimenti (in relativo declino) per crescita ed innovazione. Tali saldi monetari attivi hanno trovato sbocco (nella ricerca di diversificazione per motivi precauzionali) in una lievitazione degli impieghi finanziari e in altre forme di inflazione degli assetti di ricchezza. Le implicazioni di per sé recessive determinate dall’eccesso relativo di risparmio sono state parzialmente compensate per un rilevante periodo di tempo da spese pubbliche in disavanzo. Se questo ha fatto bene all’economia reale, ha tuttavia aggravato il problema dal punto di vista dell’accumularsi dei saldi monetari attivi nelle mani delle famiglie. Tali saldi monetari sono andati comprando, anche con l’aiuto delle banche, titoli e altri assetti di ricchezza non connessi all’espansione della capacità produttiva (titoli finanziari, case esistenti, terreni, opzioni su materie prime, ecc.), inducendone quegli aumenti di valore che hanno creato e alimentato l’espansione della c.d. “paper economy”. Di quella ricchezza, cioè, la cui abnorme inflazione ha già determinato in passato distorsioni nella distribuzione del reddito e probabilmente ha contribuito al rallentamento degli investimenti produttivi, e che oggi costituisce il combustibile che propaga l’incendio innescato dagli speculatori professionali. Sono infatti le crisi di ansia dei possessori di questi stock di ricchezza (il parco buoi) che, in assenza di politiche di garanzia autorevoli e credibili, moltiplicano gli effetti delle manovre speculative e le premiano.
Ciò rende evidente che il problema non è quello di imbrigliare gli speculatori – compito a dir poco arduo se non addirittura impossibile per il momento – bensì quello di togliere loro il moltiplicatore, rassicurando il parco buoi. Ma esiste un solo modo per far ciò: dare una garanzia immediata e totale nei confronti di possibili annunciati fallimenti, ciò che possono fare solo le banche centrali. A manovre che fanno leva su variazioni dei valori degli stock si risponde rendendo chiaro, con gli annunci e con i fatti, che le vendite saranno fronteggiate da acquisti, senza limiti, sostenuti da adeguamenti degli stock di moneta; e se si risponde, subito e con decisione, dando prova di forza, non succede niente o succede poco. La rassicurazione completa e pronta evita di dover comprare (creando moneta) perché poche saranno le vendite. L’unico soggetto che ha una tale potenza di fuoco è in Europa la Bce, come ha messo lucidamente in evidenza Paul de Grauwe recentemente (18 agosto, “The European Central Bank as a lender of last resort”, www.voxeu.org).
Rispondendo invece, come purtroppo si sta facendo, solo con garanzie parziali, centellinate nel tempo, rese incerte da conflitti tra presunte cicale e ottuse formiche, da invidie e competizioni tra stati, con promesse di politiche “virtuose” esercitate sui flussi, che sono sempre a rischio di grandi tensioni sociali e di backlash recessivi (e quindi di nuovi attacchi speculativi), si premia la speculazione, si fanno inutilmente soffrire i popoli, si mina la coesione internazionale.
La Bce – fa notare de Grauwe – non ha esitato a sostenere le banche nel 2008 quando esse rischiavano un fallimento a catena. Eppure ha esitato ed esita ad intervenire sui rischi dei debiti pubblici, sebbene questi ammontino nell’Eurozona all’80% del corrispondente Pil, mentre l’indebitamento complessivo (le liabilities) delle banche fosse ben il 250% del Pil. I rischi di fallimento a catena, in assenza di un prestatore di ultima istanza, sono esattamente gli stessi per i debiti bancari e per i tioli pubblici e sollevano gli stessi problemi. Di qui la sua proposta, che la Bce funga da prestatore di ultima istanza anche per i debiti pubblici. Una proposta, del resto, non dissimile da quella di Daniel Gros (“August 2011: The euro crisis reaches the core”, 11 agosto, www.voxeu.org), che propone di trasformare lo European Financial Stability Fund (Efsf) in una banca, rispetto alla quale la Bce dovrebbe agire come prestatore di ultima istanza. Entrambi sostengono il carattere dilatorio e alla fine fallimentare di soluzioni diverse. Concordo pienamente, anche per ragioni ulteriori che chiarirò in un successivo articolo.
continua
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