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I conti in rosso dell’Italia e la carta cinese

11/08/2011

I grossi guai dei conti pubblici italiani e una crisi che non si ferma; l’improvvido governo e il rischio delle privatizzazioni in svendita. E se fosse la Cina a finanziare il debito italiano?

La situazione finanziaria dello stato italiano va diventando più critica: in assenza dell’intervento della Banca centrale europea dei giorni scorsi il rendimento dei titoli sarebbe arrivato a livelli propri di un emittente in grande difficoltà. Cionondimeno, il differenziale fra il rendimento dei Btp decennali e gli analoghi titoli tedeschi, che in taluni momenti ha superato i 4 punti percentuali è rimasto volatile, prossimo ai tre punti. Si tratta di tassi che incorporano un rischio d’insolvenza molto elevato: si può stimare che la probabilità di default attribuita dal mercato prima della scadenza dei titoli sia non inferiore al 25%. Differente rimane la valutazione delle agenzie di rating che hanno lasciato inalterato il proprio giudizio, ancora molto positivo, sulle prospettive di rimborso.

Il precipitare della crisi finanziaria italiana è dovuto alla quanto meno improvvida azione del governo che, in una situazione già drammatica, aveva proposto una manovra correttiva per il biennio 2013-2014, ossia aveva rimandato ogni intervento al dopo elezioni. La crisi ha contagiato la Spagna, penalizzata da un deficit di bilancio eccessivo (9% del Pil. Negli ultimi giorni si è progressivamente estesa al settore privato: in venti giorni il valore delle aziende quotate in Borsa è diminuito di un quarto, quello delle imprese del settore finanziario di quasi il 28%.

La situazione appare al momento molto complessa: il debito italiano è colossale, circa 1.900 miliardi di euro, tre volte quello complessivo degli altri tre paesi europei in difficoltà finanziarie. Il “matrimonio” tra Bce e alcuni stati forti dell’Eurozona è destinato a immettere un’anomala liquidità nei mercati, che, in misura non trascurabile, tenderà a uscire dai confini europei. In assenza di fatti in grado di modificare la credibilità dello stato italiano sui mercati internazionali, persino il commissariamento del governo da parte del direttorio franco-tedesco e gli interventi straordinari e inusuali della Banca centrale europea potrebbero risultare insufficienti.

Negli ultimi giorni, anche notizie positive come il buon esito di un’asta di titoli pubblici, non sono state in grado di migliorare le aspettative degli operatori o addirittura le hanno peggiorate. La mattina del 10 agosto, a fronte di 7,15 mld di Bot in scadenza, il Tesoro ha collocato 6,5 miliardi di Bot annuali, al tasso del 2,96%, beneficiando di una domanda molto elevata: il rapporto tra quantità domandate e offerte (il cosiddetto bid-to-cover), pari a 1,95, era stato il più alto dall'inizio dell'anno. Ciononostante nel pomeriggio i mercati hanno penalizzando i titoli delle principali banche creditrici dello stato, sia francesi sia italiane, con massicce vendite, forse per la generosità mostrata nel rifinanziarlo; Societè Generale ha perso quasi il 20%, Intesa San Paolo il 12%; in alcuni momenti del giorno successivo i listini sono ulteriormente calati per riprendersi solo in chiusura di seduta.

Per evitare il default non possono essere più commessi errori: occorre avere una visione di lungo periodo, in grado di definire un percorso di risanamento finanziario dello Stato e garantire la ripresa dell’economia reale. Ci vogliono indirizzi di politica economica, fiscale e industriale volti a irrobustire il tessuto produttivo aumentandone la produttività, accrescere i consumi delle famiglie, redistribuire il reddito e la ricchezza.

Nel breve periodo occorre trovare delle soluzioni per alleggerire le tensioni sul rifinanziamento del debito in scadenza, anche per ridurre il peso degli oneri finanziari sul bilancio pubblico. I mercati non sono il solo modo per raccogliere capitali freschi: esiste la possibilità di ricevere finanziamenti diretti da altri organismi. Nel 1976, all’indomani dello choc petrolifero del 1973 che aveva modificato le ragioni di scambio internazionali in sfavore del nostro Paese, la banca centrale tedesca concesse al nostro Paese, con la garanzia di 540 tonnellate delle riserve auree della Banca d’Italia, un prestito di 2 miliardi di dollari (l’oro rientrò nel 1997).

Nel mondo la disponibilità di risorse finanziarie è concentrata in alcune grandi economie che hanno forti surplus dei loro conti con l’estero, fra le quali la più importante è la Repubblica popolare cinese che detiene circa il 40% delle riserve monetarie globali e ha in portafoglio circa 1.200 miliardi di dollari di titoli dello stato americano. La Cina ha interesse a sostenere il sistema finanziario mondiale non solo per preservare la stabilità dei suoi mercati di sbocco (l’Italia riceve quasi il 2% delle esportazioni cinesi), ma anche perché la variazione dei prezzi delle attività finanziarie internazionali si riflette sul valore delle proprie riserve.

Un eventuale finanziamento a lungo termine da parte di un soggetto terzo all’eurozona, oltre a ridurre il fabbisogno da raccogliere sul mercato, darebbe un segnale importante agli operatori circa la credibilità dell’emittente. Un segnale questo che non viene invece dagli interventi europei, sia per la mancanza di chiarezza negli obiettivi e dimensioni dei programmi di sostegno, sia per l’intrinseco interesse dell’Europa a evitare il dissesto di un suo stato membro.

Quali sono le garanzie che lo stato italiano potrebbe concedere in questa ipotesi? In primo luogo un credibile programma di risanamento finanziario che fissi tempi e dimensioni del riequilibrio, poi la redazione di un piano di cooperazione internazionale, utile anche al paese creditore, infine, se necessario, il pegno di alcune attività: non necessariamente oro, ma ad esempio quote di imprese pubbliche. Quest’ultima eventualità avrebbe alcuni vantaggi: manterrebbe il controllo pubblico su una parte importante dell’apparato produttivo nazionale; stimolerebbe un’attenzione per il rilancio delle attività produttive del paese e si potrebbe collocare all’interno di una più ampia politica industriale; consentirebbe di evitare le frettolose privatizzazioni prospettate dalla nuova manovra del governo – e suggerite in modo interessato da più parti, in Italia e in Europa – che, in questa fase, si tradurrebbero in una preoccupante (e inutile) svendita del patrimonio pubblico.

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