La crisi ha prodotto un ritorno coatto alla "politicizzazione dell'economia". Ma sarà difficile uscirne senza un diverso modello. Da un'intervista con Beck
Quello di Ulrich Beck, tra i più noti e influenti pensatori europei, è un vero corpo a corpo con la società. Praticato con quella riflessività che secondo il sociologo tedesco costituisce la cifra peculiare della seconda modernità. E’ proprio grazie a uno sguardo critico sull’immaturità storica della sociologia, ancorata all’“insularità seduttiva della coscienza nazionale”, che l’autore de La società del rischio infatti ha potuto incrinare l’orizzonte normativo della sociologia novecentesca, sostituendo al nazionalismo metodologico un immaginario inclusivo e ambivalente. L’unico con cui sia possibile fare i conti col presente e immaginare alternative all’architettura nazionale della politica e della democrazia. Se “l’ontologia sociale-territoriale” dello Stato-nazione mutila l’immaginazione e ostacola la nostra capacità di azione, perché misconosce la natura della società mondiale del rischio in cui viviamo, sostiene Ulrich Beck, lo “sguardo cosmopolita” ci consente invece di individuare in ogni rischio, oltre all’anticipazione di una catastrofe, il principio di una trasformazione. Un principio latente anche nella crisi economica attuale, da cui potrebbe originarsi “un nuovo modello di modernità”. Abbiamo incontrato Ulrich Beck alla London School of Economics, e con lui abbiamo discusso del suo lavoro e dei rischi e delle opportunità del nostro tempo.
Ora che si è verificata quella “crisi globalmente sincronizzata” che paventava già in suo testo del 2000, cosa ci dobbiamo aspettare? Come pronosticava allora, “la legge di ferro della globalizzazione del libero mercato rischia di collassare”, producendo “un’inversione della politica neoliberista - non l’economicizzazione della politica, ma la politicizzazione dell’economia”? O le sembra piuttosto che il pensiero e le politiche economiche siano ancora soggiogate dalla “seduttività dell’ideologia neoliberista”?
Direi che oggi a prevalere sia il primo orientamento. La politicizzazione dell’economia è evidente in primo luogo nella trasformazione di alcuni governi nazionali in Stati “socialisti”, che hanno inaugurato un nuovo socialismo di Stato destinato a ricchi, a banche e banchieri. Ma avviene anche secondo direzioni opposte. Lo dimostra il caso della Grecia, e quello di molti altri paesi in bilico, l’Italia in qualche modo, la Spagna, l’Islanda e via dicendo. In questi paesi, ci si chiede chi potrà mai risolvere i problemi delle banche radicate nelle economie statali e interstatali. La crisi, dunque, è ancora in corso, e c’è una effettiva politicizzazione dell’economia, ma le istituzioni statali dimostrano di essere del tutto inefficaci. Su questo si è consumato un grande equivoco: per un certo periodo si è creduto che fosse “tornato” lo Stato-nazione. Ora ci si accorge invece che lo Stato-nazione, piuttosto che intervenire e dimostrare la sua intatta solidità, è in bancarotta, in dissoluzione. Anche uno dei paesi più ricchi del mondo, la Germania, a livello comunale deve chiudere centinaia di attività ed esercizi. C’è però un aspetto della situazione generale che all'epoca avevo sottostimato. Nonostante il suo collasso, infatti, il neoliberismo è ancora in piedi: alternative reali non esistono. Quando si è dissolto il sistema comunista, il panorama era saturo di ogni sorta di ideologia democratica e neoliberale e di saperi antagonisti. Invece, oggi che è il neoliberismo a dissolversi, non esiste una vera e propria teoria o un sapere “maturo” che possa sostituirlo. Anche per questo Obama, che avrebbe potuto tentare risposte istituzionali inedite, si appoggia ai “vecchi” esperti. D’altronde, chi sono coloro che delineano i nuovi criteri di regolamentazione? Proprio quelli che, pochi anni fa, hanno deciso che non ce ne fosse bisogno. Ma senza vere alternative, la crisi potrà riprodursi ancora e poi ancora. Sarà difficile uscirne senza un diverso modello.
Secondo alcuni commentatori, in mancanza di orizzonti e progetti politico-sociali alternativi che non siano effimeri, il modello neoliberista, per quanto indebolito, è destinato a rimanere egemonico ancora a lungo. C’è chi sostiene invece che, sotto le apparenze, questo modello sia ormai irrimediabilmente incrinato, anche se a causa delle sue stesse contraddizioni, piuttosto che per l’azione di quanti lo hanno contestato. Sarebbe d’accordo nel definirlo un modello ancora al potere, benché privo di legittimità?
E’ così: il sistema capitalistico, e la declinazione neoliberista che ha assunto negli ultimi decenni, è del tutto delegittimato. La crisi ne ha compromesso la legittimità. Le vecchi istituzioni ancora funzionano, i vecchi attori continuano ad operare più o meno come in passato. Eppure, il sistema ha ormai assunto una fisionomia del tutto nuova, proprio perché privo di legittimità. E risulta imparagonabile a quello che era solo dieci anni fa. In una situazione tale, può davvero accadere di tutto. Improvvisamente. Nessuno è in grado di formulare ipotesi future plausibili. Quelli che reputiamo “esperti”, guardano nella stessa direzione di sempre, cercando di riprodurre il vecchio ordine, senza accorgersi che un numero incredibile di persone - anche tra la classe media - non vi si identifica più. I dibattiti sugli stipendi dei manager e sulle disparità salariali riflettono nuovi conflitti sociali, anche se parziali, e nascono proprio dal venir meno della forza di legittimazione del sistema. Gli scenari possibili sono tantissimi. Assumiamo per esempio che la “malattia greca” contagi anche gli Stati Uniti, e che anche gli Stati Uniti rischino la bancarotta. E’ uno scenario per ora improbabile, ma che tutto sommato potrebbe anche verificarsi, nei prossimi due o tre anni. In questo caso, la situazione sarebbe diversa: improvvisamente, i poteri occidentali e le istituzioni ad essi connesse si troverebbe in guai molto seri. E potrebbe davvero emergere un nuovo modello di modernità. Fare ipotesi sul futuro è estremamente complicato, oggi. Ad ogni modo, bisogna cominciare col riconoscere che il sistema capitalistico come lo conosciamo è ormai destabilizzato.
(la versione completa di questa intervista sarà pubblicata sul prossimo numero de Lo Straniero)
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