La scuola media è un incubatore di disuguaglianze destinate a esplodere. Occorre rivederne metodi e obiettivi
Chissà se sono stati tassisti e forconi vari a sconsigliare l’apertura di un altro fronte. È un fatto però che a viale Trastevere sembra al momento archiviato l’orientamento a ridurre da 13 a 12 anni il ciclo dell’istruzione. Un vero peccato perché l’anomalia italiana del ritardo di un anno nel conseguimento dei diplomi – 19 anni invece che 18 – non è affatto un vantaggio. Non lo è per i giovani che dopo il diploma si affacciano sul mercato del lavoro, e neppure per quelli che proseguono gli studi, sempre più lunghi, di tipo terziario. Non lo è per le famiglie, e neppure per un sistema scolastico che potrebbe utilizzare meglio i suoi organici. Sotto l’urto di sindacati e di partiti capaci di rappresentare solo i precari “storici” (e solo le resistenze dell’uno o dell’altro segmento scolastico), fallirono del resto anche i tentativi di Berlinguer e di Moratti, pur diversi nell’orientamento politico e nelle soluzioni organizzative. C’è da sperare che non abbia lo stesso esito anche l’intenzione, subito e felicemente dichiarata dal ministro Profumo, di “ringiovanire” la categoria degli insegnanti (52 anni l’età media, 40 quella dei precari delle graduatorie) riaprendo finalmente la porta con un regolare concorso – l’ultimo è del 1999 – ai giovani laureati fuori dalle graduatorie. Trentamila i neoabilitati già pronti, altri ventimila quelli che l’abilitazione la conseguiranno nel 2012.
La rotta, comunque, sembra oggi virare innanzitutto sul contrasto alla dispersione. Non c’è ministro degli ultimi venti anni, a parte il caso disperato di Gelmini, che non l’abbia messo in cima ai suoi programmi e che non abbia orientato in questo senso – che poi territorialmente significa soprattutto scuola meridionale – una parte non insignificante della spesa. Ma la situazione non cambia. Quasi un ragazzo su cinque (19%, 5 punti sopra la media europea, peggio di noi in Europa solo Malta e Bulgaria) non arriva a conseguire né un diploma né una qualifica professionale. E dei due milioni di giovani fuori da ogni circuito formativo, dal lavoro, e perfino dalla ricerca di un lavoro, non a caso più della metà ha al massimo la licenza media. Segno che progetti speciali, distribuzioni a pioggia di risorse aggiuntive, regalie di organici sulle aree a rischio, corsi di recupero che vanno e vengono, sono pannicelli caldi. Segno che bisognerebbe agire anche fuori della scuola, sui versanti decisivi della qualificazione professionale e dell’apprendistato formativo. Ma è anche nella scuola che bisognerebbe operare in modi diversi. Più strutturali, più incisivi, e proprio dove lo svantaggio scolastico nasce e diventa un destino.
Il dove è la scuola media. Ci torna, con nuovi dati, il Rapporto 2011 sulla scuola della Fondazione Agnelli [1]. Scuola media “anello debole” del sistema. Connotato da un’efficacia troppo bassa, nettamente inferiore a quella della scuola primaria, ma anche da una scarsa equità visto che oggi, a differenza che negli anni ‘sessanta’, l’obiettivo principale non è più solo che tutti conseguano il titolo per l’accesso alla scuola superiore ma anche e soprattutto una decente qualità media degli apprendimenti. Sfogliando i numeri, è evidente che invece che garante di pari opportunità nell’apprendimento, la scuola media si presenta piuttosto come l’incubatore di disuguaglianze destinate ad esplodere nella secondaria superiore. Di svantaggi immancabilmente correlati a quelli socioculturali di partenza, che ci sono ovviamente anche nella scuola primaria e che però lì vengono più sapientemente compensati. Nella scuola media no, quello che finisce col contare davvero sono il livello di istruzione dei genitori, la nazionalità, il contesto territoriale, perfino il genere (i maschi sono molto più a rischio delle femmine). Stentano i figli di situazioni sociali difficili ma fa pochi progressi anche chi ha alle spalle situazioni più solide. Non solo. L’orientamento appare più simile a una ratificazione a posteriori dei successi o dei fallimenti educativi che a una promozione e un intelligente accompagnamento allo sviluppo dei talenti e delle attitudini individuali.
Fatti noti da tempo, eppure di interventi finalizzati a rimuoverne le cause non se ne vedono. Anche nell’opinione pubblica e nei media prevalgono le opinioni assai diffuse in funzione autogiustificativa tra gli insegnanti e nella dirigenza scolastica. La scuola media paga uno scotto pesante alla sua originaria mission universalistica, sacrificando sull’altare dell’equità – la licenza media a tutti – la scommessa dell’efficacia. Ma è proprio così? Tra i meriti del Rapporto, c’è uno studio sulla formazione delle classi che smentisce il peso, nei comportamenti concreti delle scuole, di una così divorante passione per l’equità. In tutto il Sud il principio stabilito in lettere d’oro della “equieterogeneità” – assicurare una composizione il più possibile mista delle classi – viene largamente disapplicato, e il vizio, talora acuto, c’è anche nel Centro-Nord. Le classi omogenee per caratteristiche sociali e risultati scolastici, in alto e in basso, sono numerosissime, anche fuori dalle aree metropolitane e dai quartieri a composizione prevalentemente omogenea, anche nelle piccole città, anche all’interno di uno stesso istituto. Una rilevazione che da sola spalanca spiacevoli interrogativi sulla responsabilità educativa delle autonomie scolastiche, sul condizionamento esercitato dalle famiglie, sul gioco delle convenienze professionali. Ma c’è di più. Utilizzando i risultati INVALSI (ecco un caso in cui hanno un senso le rilevazioni sistematiche degli apprendimenti), viene fuori che le classi omogenee fanno meno progressi di quelle eterogenee. Esito scontato per quelle di livello più basso, in cui viene a mancare l’effetto traino dei più svegli e in cui anche gli insegnanti, aspettandosi poco da allievi così scadenti, finiscono spesso col dare il meno possibile. Esito invece inatteso – ma solo per chi non sappia quello che davvero succede in aula – è che lo stesso avviene anche nelle classi omogenee di livello più alto, perché può venir meno, sotto la pressione di comportamenti competitivi, la disponibilità al “cooperative learning”, cioè a imparare insieme, e gli uni dagli altri. Troppo poco per concludere, come fa la Fondazione Agnelli, che qui non è l’obiettivo dell’equità a mettere in ombra l’efficacia, ma è al contrario l’efficacia a venire compromessa dalla scarsa equità? Abbastanza, comunque, per non andar dietro al pregiudizio per cui qualità ed equità sarebbero sempre e comunque in alternativa.
Colpiscono, comunque, oltre ai più noti risultati di P.I.S.A – che analizzando gli apprendimenti dei 15enni parlano ovviamente più di scuola media che di superiore – quelli dell’indagine internazionale TIMMS (Trends in International Mathematics and Scienze Study) che rileva periodicamente, su campioni appartenenti alla stessa coorte, i livelli delle competenze matematiche e scientifiche in quarta elementare e in terza media. I punteggi in quarta elementare, nettamente superiori alla media internazionale, precipitano infatti a quattro anni di distanza nella media: -23 per matematica, -21 per scienze. Non solo, in nessuno dei 12 paesi a confronto la riduzione è così vistosa come in Italia. Ovvio che la soluzione – non si inquietino Gelmini e gelminiani – non può essere un disinvolto ricorso a più bocciature (tutte le indagini internazionali, fra l’altro, ne dimostrano l’inutilità, e anzi il danno, rispetto ai possibili miglioramenti). Bisogna lavorare sulle cause specifiche. Che nella scuola media sono tante, tra cui la più alta età media degli insegnanti (con tutto quello che ne deriva sulla resistenza all’adozione di metodi innovativi, compreso l’uso didattico delle TIC ), il più alto tasso di mobilità (dovuto a quote molto consistenti di precariato ma anche al diffuso desiderio di fuga nei luoghi più nobili dell’istruzione superiore) e quindi di discontinuità didattica, uno spiccato conservatorismo professionale (perché la scuola cui si guarda non è la primaria ma i licei) aggravato dal fatto che la media è il settore scolastico che negli anni meno si è dovuto misurare con interventi riformatori significativi. Ma prima di tutto un curricolo, figlio di una fase sociale e culturale lontanissima dai bisogni formativi e dagli stili di apprendimento dei ragazzi di oggi, fatto di troppe discipline separate e incomunicanti, e tutte ugualmente obbligatorie benché mai considerate, nella pratica didattica concreta, di pari valore per la loro formazione e per le loro scelte future. Lo stacco da una primaria che ha invece imparato a lavorare per aree larghe di interesse e di competenza, essenzializzando i contenuti, valorizzando i laboratori, concordando le scelte tra gli insegnanti, è davvero troppo brusco. Tanto più nell’età difficile della preadolescenza, in cui disorientamento, distrazione, cambiamento dell’immagine di sé sono compagnie immancabili, e in cui quello che comincia a contare di più non è il rapporto con le figure adulte ma quello tra i pari. Nel Rapporto della Fondazione Agnelli ci sono anche indicazioni operative. Di modifiche facilmente praticabili, e anche di trasformazioni più profonde, forse poco gradite a una parte degli insegnanti, e soprattutto al partito unico della conservazione che nella scuola è forte come e più che in altri settori. Non tutte le proposte sono egualmente convincenti, ma non è questo il punto. Quello che convince, e di cui bisognerebbe discutere, è che l’”anello debole” rende deboli molti ragazzi, troppi definitivamente. E che il problema non è più rinviabile.
[1] Fondazione Giovanni Agnelli. Rapporto 2011 sulla scuola in Italia, Bari, Laterza
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