In Provenza, nello stabilimento della Fralib che la casa madre, Unilever, voleva delocalizzare in Polonia, gli operai hanno occupato la fabbrica. La vertenza non è ancora conclusa e la battaglia giudiziaria per il marchio va di pari passo con quella per la riappropriazione della fabbrica
Ritrovo l’Unilever in una ben tenuta area industriale della Provenza, a Géménos, una trentina di chilometri da Marsiglia. Ancora una volta arrivo troppo tardi. Anche qui la multinazionale ha già fatto le valigie, ma questa volta la situazione è molto diversa da quella che avevo trovato a Cisterna di Latina. La Fralib non è stata venduta a pezzi su un bancone del mercato globale del pesce, come un surgelato Findus. La Unilever ha deciso di delocalizzarla in Polonia dove la manodopera costa meno e ha meno diritti, come un’Electrolux qualsiasi, nonostante i lavoratori di Géménos fossero particolarmente abili a preparare tisane e infusi, grazie a una fiorente produzione locale di erbe e a una sapienza secolare. Non è servito a molto, evidentemente, di fronte ai nuovi imperativi del capitalismo finanziario: non importa il prodotto finale, piuttosto mantenere inalterati i profitti. Ecco il secondo indizio che non fa una prova ma induce a chiedersi quanto squilibrato sia il rapporto, oggi, tra capitale globale e lavoro.
Ma qui, in questa campagna così curata da sembrare un giardino piuttosto che un’area industriale, con le fabbriche immerse nel verde e un torrente a fare da spartitraffico, è accaduto qualcosa di straordinario. Gli operai non si sono accontentati di una resistenza a oltranza. Hanno occupato la fabbrica ed evitato che la multinazionale smontasse i macchinari. Poi sono passati al contrattacco, mirando al cuore della questione proprietaria: il marchio. Si tratta di un elefantino che da queste parti, e un po’ in tutta la Francia, è una garanzia. Le tisane a base di erbe provenzali con l’esotico simbolo le bevevano i padri, i nonni e i bisavoli degli abitanti di Géménos e dell’intera Provenza. L’Unilever è arrivata dopo, ed è per questo che quando quest’ultima ha deciso di andar via, i 180 dipendenti hanno risposto più o meno in questo modo: voi andate pure dove vi pare, ma l’elefante è qui dal 1896 e ci rimarrà. Il governo dell’area metropolitana di Marsiglia, a guida socialista, l’ha dichiarato «prodotto regionale» e messo sotto tutela prima ancora di requisire, al prezzo simbolico di un euro, i terreni su cui sorge la fabbrica e i macchinari. Persino Francois Hollande, «prima che fosse eletto Presidente della Repubblica» ironizzano gli operai per sottolineare come in seguito non abbia fatto granché, e il ministro del Lavoro Arnald Montebourg sono venuti alla Fralib a promettere che, come si legge sulle t-shirt autoprodotte, «l’elefante vivrà a Géménos».
Tutti sono consapevoli che la battaglia giudiziaria è molto complessa: si tratterebbe di scardinare il diritto di proprietà immateriale, e se per un augurabile caso i resistenti della Provenza dovessero spuntarla, avrebbero assestato un duro colpo alle fondamenta del capitalismo postmoderno, che trae profitto dal brand ancor più che dalla produzione, come ha spiegato Naomi Klein già quindici anni fa nel suo No logo.
Oggi all’ingresso della Fralib sventolano tre bandiere: una bianca con al centro Che Guevara e il nome della fabbrica, la seconda con il marchio della Lipton e l’invito a boicottarlo, la terza simboleggia la Unilever, proprietaria del marchio e dello stabilimento. Ci hanno disegnato una x sopra e aggiunto una scritta, «uccide l’impiego». È appena accaduto che l’Unilever ha presentato il suo quarto Piano per la salvaguardia dell’impiego, dopo che i primi tre erano stati bocciati dalla magistratura. Il nome non inganni: il Piano prevede di mantenere sul libro paga, per i prossimi due anni, solo dodici persone, in buona sostanza i rappresentanti sindacali, solo per dovere di rappresentanza nelle procedure di liquidazione. Poi, tutti a casa. L’impiego non sarà salvaguardato.
Si tratta dell’ultimo atto di un braccio di ferro cominciato tre anni fa quando, dopo diversi piani di ristrutturazione, la multinazionale ha deciso di smobilitare, spostando l’attività in Polonia per continuare a commercializzare il tè Lipton e gli infusi Elephant come prima, in Francia e nel resto d’Europa, ma con minori costi di produzione. L’ultimo direttore Angel Llovera, un manager proveniente dalla Coca Cola, è ritratto da anonimi graffitisti lungo i muri della fabbrica come «el diablo».
«Ci hanno preso in giro. Mentre diceva che dovevano chiudere perché la produzione diminuiva, la proprietà acquistava sedici macchinari nuovi per lo stabilimento polacco», ricorda Olivier Leborquiez, un operaio che mi porta in visita allo stabilimento. Tutto è conservato come se non avesse mai smesso di funzionare, il comune paga le spese e tutto è in perfetto ordine, persino gli uffici amministrativi e la mensa. Le macchine potrebbero riprendere a confezionare tè e tisane da subito, ma per il momento funzionano a scartamento ridotto solo per la «produzione militante»: tra le confezioni di tè Lipton e delle altre bevande col marchio Elephant lasciate in bella mostra spuntano le confezioni di mate con la dicitura «prodotto da fabbrica in lotta» e l’immancabile elefantino. È solo un assaggio di come potrebbe essere riconvertita la produzione una volta che la vertenza sarà definitivamente risolta. Amar Hassani, un operaio franco-algerino orgoglioso della sua «doppia cultura», racconta: «Abbiamo cominciato con una piccola produzione di tisane al tiglio, che abbiamo portato alla festa nazionale dell’Humanité a Parigi. Sono venute persino alcune spie dell’Unilever ad assaggiarle». Leborquiez illustra pregi e virtù di ogni singola macchina e le differenze tra quelle italiane e le tedesche. Un capannone è pieno di sacchi contenenti aromi chimici. Sono come delle palline vetrificate, odorose. Di naturale non c’è nulla. «Negli ultimi anni l’azienda aveva smesso di utilizzare gli aromi naturali», ancora una volta per risparmiare. Al posto delle piante aromatiche medicinali per le quali la Provenza è famosa, ecco questi additivi innaturali. Era stato l’inizio della fine: i produttori locali erano stati tagliati fuori e, perso ogni rapporto col territorio, era venuta meno anche la ragione sociale per mantenere uno stabilimento in Provenza piuttosto che in qualsiasi altro luogo del mondo. Gli ex lavoratori stanno recuperando la fabbrica riagganciandola ai luoghi: come primo passo, si appoggeranno alla filiera del biologico, del chilometro zero e alle reti del commercio equo e solidale. Ma «per ridare lavoro a tutti abbiamo calcolato di aver bisogno di commercializzare mille tonnellate all’anno». Un’impresa possibile se riusciranno a mantenere il marchio o, in alternativa, se l’Unilever s’impegnerà ad acquistare i loro prodotti per tre anni.
L’esito non è scontato. In tre anni di resistenza è accaduto di tutto. Leborquiez ricorda come la compagnia abbia assoldato, nella prima fase dell’occupazione, un’agenzia di security per sgomberarli. «Sono arrivati di notte calandosi dal tetto» come in un’operazione bellica, «era gente dell’est Europa, che aveva fatto esperienza nelle guerre balcaniche, non parlavano una parola di francese». Milizie padronali paramilitari, pericolose. «Ma hanno trovato ad attenderli trecento persone attrezzate a difendersi». La solidarietà operaia è stata notevole: si sono mobilitate dodici fabbriche della zona. Poi è intervenuta la politica. Si dice che sia stato lo stesso Hollande a fare pressioni perché i terreni e i macchinari fossero requisiti, il sito era presidiato giorno e notte, l’Unilever non pagava più gli stipendi e la Cgt, l’unico sindacato ad appoggiare la lotta, ha organizzato una cassa di resistenza. Dopo aver fallito con le maniere forti l’azienda ha provato ad addolcire i rivoltosi, offrendo loro un risarcimento di 80 mila euro a persona in cambio della smobilitazione. Non ne hanno trovato uno disposto ad accettare. «Ne vogliamo 200 mila, l’equivalente di cinque anni di stipendio, solo per il danno morale subìto. Poi vogliamo tornare al lavoro, perché sappiamo di poter far funzionare quest’impianto», dicono ancora oggi.
Nel frattempo, fanno appello al boicottaggio del tè Lipton e di tutti i prodotti Unilever, «in ogni modo possibile», dice Gerard Cazorla, un altro lavoratore. Non è facile individuarli perché la multinazionale non compare mai con il suo nome, ma solo sfruttando marchi riconosciuti. Per renderli riconoscibili gli attivisti della rete di boicottaggio entrano nei supermercati e gettano a terra i prodotti riconducibili alla multinazionale. Una delegazione di operai di Géménos è anche andata in Polonia per incontrare gli operai della nuova Fralib delocalizzata, trovando però poca solidarietà nel mors tua, vita mea del dumping sociale europeo. E la battaglia giudiziaria per il marchio, dopo il riconoscimento che esso fa parte del «patrimonio regionale», va di pari passo con quella per la riappropriazione della fabbrica. «Il nostro progetto è di fare il contrario dell’Unilever: un commercio responsabile. Vogliamo dimostrare di essere capaci di gestire questo sito in maniera alternativa, se così non fosse avremmo buttato via tre anni della nostra vita», dice Hassani. Per lui non c’è alternativa allo sperimentare una visione eco-solidale del loro lavoro. Il che vuol dire che «se hai un operaio che ha lavorato per tanti anni qui non lo elimini solo perché non serve più». Inoltre, vogliono tornare a valorizzare le piante locali, come spiega Marie-Noel Fratigny, una lavoratrice che continua a indossare il camice verde nonostante i suoi 39 anni di lavoro in fabbrica la spingano direttamente verso la pensione, una volta esaurito il periodo di disoccupazione pagato dallo Stato. La Fralib è diventata un caso emblematico in Francia, e oggi è una fabbrica quasi recuperata. Lo sarà definitivamente quando avrà vinto l’ultima scommessa: quella di non far partire l’elefantino alla volta della Polonia. A Géménos hanno bisogno di lui.
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