Gli strumenti di sostegno al reddito - quando ci sono - sembrano diventati l'unica ricetta contro la crisi. Ma non servono affatto a far ripartire l'economia
C’è da meravigliarsi profondamente del modo in cui le autorità di politica economica continuano ad affrontare in Italia la presente crisi economica. Si ritiene sufficiente (oltre a predisporre strumenti finanziari per soccorrere le banche in caso di bisogno) muoversi sulla linea di stanziare risorse per gli “ammortizzatori” sociali. Le autorità menano vanto che queste siano ingenti, e addirittura disponibili in misura superiore a quanto effettivamente utilizzato (il che, tuttavia, potrebbe anche significare che un gran numero di lavoratori colpiti dalla crisi ne resti ancora escluso nonostante gli ammortizzatori “in deroga”).
Mentre tutti gli indicatori disponibili, sul piano dell’andamento dell’occupazione, della produzione e del commercio estero, segnalano il protrarsi della crisi, sembra che da noi l’unico strumento per reagire consista nel rafforzare il sostegno al reddito dei disoccupati in attesa che “la crisi passi” e che “arrivi” la ripresa. Così la crisi appare quasi come un grande fenomeno temporalesco scatenato dalle forze della natura cui si può solo rispondere aprendo l’ombrello per ripararsi dall’acqua in attesa che il temporale passi.
Purtroppo non è così.
Come tutti sanno, la presente crisi ha avuto come detonatore lo sgonfiamento della bolla finanziaria costruita sui “subprimes”. La cartolarizzazione di tali crediti e la loro incorporazione in prodotti finanziari derivati di vario tipo ha pervaso tutto il sistema finanziario mondiale fino al punto che essi si sono rivelati inesigibili e quindi ne è crollato il valore. Ciò ha determinato enormi problemi di liquidità per le banche e molte altre istituzioni finanziarie, grandi minusvalenze e ridimensionamento dei valori patrimoniali, restrizione del credito. Da qui difficoltà finanziarie per le imprese, con conseguente riduzione degli investimenti, contrazione della produzione, contrazione della occupazione. La contrazione dell’occupazione ha prodotto una ulteriore riduzione della domanda aggregata che ha alimentato ulteriori contrazioni degli investimenti e della produzione e crescita della disoccupazione, innescando una inesorabile spirale recessiva.
Tuttavia è da sottolineare che la base strutturale che ha generato la crisi riposa da un lato su una distribuzione del reddito tale da indurre i percettori di redditi bassi a fare eccessivo ricorso al credito bancario; e dall’altro sulla brama delle istituzioni finanziarie di lucrare su questo illudendosi di annullare il rischio attraverso una disinvolta e sregolata dispersione di esso in una serie di derivati finanziari che si sono diffusi come metastasi in tutto il sistema.
In questo contesto di recessione la posizione del nostro paese è particolarmente debole. Il sistema economico italiano, se pure colpito in misura minore sul lato della stabilità finanziaria degli istituti di credito, presenta però una maggior debolezza strutturale sotto due aspetti fondamentali. Il primo consiste nella proporzione delle quote distributive del reddito nazionale. La bassa quota dei redditi da lavoro comporta una tale debolezza della domanda aggregata nella componente interna da creare una pericolosa dipendenza dalla componente estera. Il secondo aspetto è costituito dalla struttura della base produttiva e dal drammatico rallentamento delle dinamiche della produttività rispetto agli altri paesi.
Davanti a questo scenario, le politiche del lavoro passive (quali sono gli ammortizzatori), pur necessarie, non sono sufficienti. Esse devono integrarsi con le politiche attive, e tutte le politiche del lavoro (attive e passive) devono essere a loro volta integrate con le politiche industriali e con gli altri strumenti di politica economica. Le politiche del lavoro non possono essere concepite come politiche di “welfare”.
In mancanza di ciò non è affatto certo che la accresciuta liquidità della banche si traduca in una facilitazione dell’accesso al credito, soprattutto da parte delle piccole e medie imprese. Le banche, infatti, potrebbero trattenere la liquidità per risolvere le loro difficoltà finanziarie e continuare a razionare il credito, anche a causa delle accresciute motivazioni prudenziali. In secondo luogo, il credito cui le imprese fanno ricorso è sempre più, in questa situazione di crisi, credito di esercizio, e non è finalizzato a realizzare investimenti fissi che aumentino la capacità produttiva installata. Quest’ultimo può divenire un obiettivo delle imprese nel complesso soltanto se cresce la domanda aggregata. E qui si incontra un punto cruciale. Gli effetti della reflazione in una economia, come quella italiana, caratterizzata da un elevato grado di apertura all’estero e da un notevole ritardo di produttività possono condurre a due risultati perversi: da un lato, un peggioramento della bilancia commerciale, e dall’altro un proseguimento della stagnazione del Pil e dell’occupazione. Non sarebbe neanche da escludere, in un contesto di rigidità dell’offerta e di estese aree di protezione dalla concorrenza, un sensibile effetto inflazionistico.
Per evitare queste conseguenze e assicurare quindi un esito positivo alle manovre anticrisi occorre procedere in due direzioni: rimuovere le rigidità dell’offerta e realizzare una crescita della produttività. La prima richiede una politica economica orientata alla ristrutturazione produttiva, cioè a cambiare, modernizzare, trasformare, migliorare l’apparato produttivo del paese. Ci sono settori strategici da sviluppare, ci sono aree e settori in crisi da ristrutturare senza velleitari accanimenti terapeutici. La seconda richiede una mobilitazione e un coordinamento di tutti i possibili strumenti di intervento per stimolare l’innovazione non soltanto di carattere strettamente tecnologico, ma anche di carattere gestionale, organizzativo, strategico ed anche istituzionale.
Il successo in queste direzioni richiede che si individuino alcuni obiettivi strategici sui quali far convergere congiuntamente una serie di misure coordinate e integrate di politica di sviluppo e di politica del lavoro. Gli “ammortizzatori sociali”, necessari per sostenere il reddito di coloro che hanno perso il lavoro e per agire come stabilizzatori automatici reflazionando la domanda, devono entrare in un quadro programmatico come strumenti di politica industriale. Non possiamo trattarli soltanto sotto il profilo della finezza giuridica, ma concepirli nella funzione strumentale agli obiettivi di crescita del livello di attività economica.
E’ necessario calibrare e congiungere organicamente il sistema degli ammortizzatori con la formazione del capitale umano, con l’azione di orientamento, con i servizi per il “matching”, per il reimpiego, per l’”outplacement”, in un quadro programmatico di politiche economiche integrate rivolte alle specifiche finalità di ristrutturazione produttiva, di innovazione e di sviluppo dei diversi sistemi economici territoriali.
Molte sono le condizioni da sviluppare perché questo possa realizzarsi (dalla creazione di “veri” osservatori sul mercato del lavoro, al ridisegno della governance interattiva; dalla riqualificazione dei servizi per l’impiego alla formulazione di veri programmi e strategie di sviluppo, dalla crescita delle competenze professionali del personale della P.A. al partenariato pubblico-privato) ma non c’è altra via possibile di “uscita” dalla crisi, e sarebbe ora che qualcuno si attivasse in queste direzioni.
Fintanto che la crisi verrà affrontata soltanto con gli “ammortizzatori sociali”, e per giunta concepiti unicamente nell’ottica del welfare per sostenere le condizioni di vita di chi ha perso il lavoro, non ci sono molte speranze che quando la ripresa “arriverà” (negli altri paesi) il nostro paese ne possa trarre gran vantaggio. E’ forse vero che gran parte degli economisti non hanno capito la natura (e i sintomi premonitori) della presente crisi; ma non sembra che i politici ne abbiano capito di più.
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